Il Pagellone: il limbo di Totti e Milan Truman Show. I voti da 10 a 1 della 36^ giornata di Serie A

Voto 10 alla dura lex del Capitano – Totti entra. Totti segna. Un mantra rassicurante, dal gusto romantico, che alimenta la rincorsa al secondo posto nella Capitale. Ormai sembra essere quasi un’abitudine, è lui l’uomo del clutch time, capace di avvinghiarsi ai minuti finali di una partita e farli propri con lampi di immenso talento. La punizione del momentaneo 2-2 è una scarica di rabbia bella e buona, una sassata che buca la porta e l’insostenibile leggerezza di un limbo, a metà tra la gloria e un inesorabile uscita di scena che si cerca in tutti i modi di ritardare. Un equilibrio precario, diviso tra un popolo che lo venera e un allenatore che ne smorza l’aurea. Totti sta lì, nel mezzo, ma non si scompone. Fa soltanto quello che gli riesce meglio. Predicare calcio, in una bolla emotiva che distorce il tempo.

Voto 9 alla Juventus bionica – Vincere uno scudetto con tre giornate d’anticipo non era abbastanza. Una cavalcata di fatta di 24 vittorie nelle ultime 25 gare disputate nemmeno. La Juve cannibale non placa l’appetito e divora il Carpi con un 2-0 blando, senza virtuosismi. Niente straordinari per la banda di Allegri, proiettata alla sfida di Coppa Italia contro il Milan, ma incapace di svincolarsi dalla logica dei tre punti. Come se fosse una macchina programmata per vincere, calibrata alla perfezione per non sbagliare mai. Sempre sul pezzo, ordinata e letale, anche quando si va in scena con i pezzi di ricambio. Questa volta decidono la gara Hernanes (al primo gol stagionale) e Zaza (ottavo centro), non proprio pedine di lusso nell’economia di Allegri. Uno strano caso in cui l’abitudine trionfa sulle motivazioni. Adesso sono guai in vista per il Carpi, mentre la Juve si gode una lussuosa passeggiata sul red carpet dello Stadium, ornato a festa per celebrare la storia.

Voto 8 al Palermo e ai giochi di potere – Alla fine è tutto una questione di forze, di chi il potere lo esercita senza che gli si ritorca contro. Dopo mesi da incubo, Palermo ha trovato le sue gerarchie: tre senatori e un re, in procinto di partire, ma desideroso di lasciare la terra che lo ha consacrato con un regalo prezioso. Sorrentino, Maresca, Gilardino e Vasquez. Da porta a porta, un campo coperto nella sua interezza dalla tenacia e dall’orgoglio di chi non vuole arrendersi mai. I protagonisti che segnano la strada per uno scenario salvezza inaspettato sono altrettanto insospettabili. Dalle liti furibonde con l’allenatore alla esclusione dalla rosa, dai fischi di uno stadio intero alle sirene di un mercato che trova sempre il modo di distrarre. Ne hanno passate di tutti i colori quei quattro, ma adesso sembrano aver trovato la formula per realizzare un miracolo. Non resta che seguire la strada tracciata, senza guardarsi indietro. E senza che dall’alto qualche vulcanico presidente non spezzi i fragili equilibri al potere.

Voto 7 al Sassuolo, dolce favola nostrana – Minimo sforzo, massimo risultato. E che risultato. Basta una rete di Pellegrini, a inizio ripresa, ad infuocare i sogni europei del piccolo, conturbante Sassuolo. Di Francesco scavalca di netto Brocchi e aggancia il sesto posto, e di questi tempi entrare in Europa, anche se dalla porta di servizio e nonostante lo stress dei preliminari, è un traguardo non da poco. A trionfare è la compattezza di un gruppo, umile e gregario, costruito a immagine e somiglianza del suo allenatore. Un combattente d’altri tempi. E il Sassuolo lotta, senza mai tirarsi indietro, tosto e temerario nel più dissacrante elogio dell’ordinarietà. Niente effetti speciali, soltanto costanza e dedizione. E così non serve guardare troppo lontano per trovare delle favole. Anche in Emilia è partita una piccola festa, dal sapore europeo.

Voto 6 al Gallo, tra creste e manite – Miglior marcatore nel 2016 alle spalle di un mostro sacro come Higuain, miglior realizzatore italiano dopo Eder. Serve altro? Nella vittoria di Udine si leva alta ancora una volta la cresta del Gallo, a segno per la dodicesima volta in stagione. D’altronde il gesto con cui si mima la cresta fa scopa con la cinquina rifilata alla Dacia Arena. Un 5-1 secco e senza appelli, in cui Belotti ha incantato per tenacia ed eleganza come ultimamente tende a fare con discreta continuità. Un gol sontuoso, una cavalcata da centometrista e quel piatto chirurgico da bomber navigato. Ma soprattutto tante giocate utili per i compagni, e un immenso spirito di sacrificio. Un biglietto da visita mica male per la candidatura in azzurro. Ventura non sta rimpiangendo affatto l’assenza d’Immobile. E di sicuro anche Conte avrà le idee più chiare.

Voto 5 al Frosinone, ma non ad un’istantanea poetica – Un pareggio che lascia l’amaro in bocca, un’impresa sfiorata, appassita sotto i colpi di un Milan tutt’altro che irresistibile. Il Frosinone è andato vicino al miracolo, ne ha assaggiato l’estasi, per poi sprofondare nella delusione più totale. Dal 2-0 al 3-3, uno smacco imperdonabile, e adesso la Serie B assume i contorni una condanna che aspetta soltanto di passare in giudicato. Lacrime e rabbia tra gli uomini di Stellone. Onore alla Ciociaria, per aver quasi scritto una pagina di storia. L’esultanza di Mirko Gori davanti a Balotelli, inerme al suolo dopo aver sbagliato un rigore, è altamente evocativa: emozioni viscerali che si riversano su un uomo deluso e deludente. E che quella rabbia, commovente ed esplosiva, pare averla persa da tempo.

Voto 4 all’Udinese e all’abisso tra curva e campo – “Tremò la terra che distrusse le case, a morire quel giorno furono in tanti, ma siamo friulani e andammo avanti“. E ancora: “6 maggio 1976-6 maggio 2016, il Friuli si piega, ma non si spezza“. Striscioni da pelle d’oca alla Dacia Arena per commemorare il disastro di un terremoto che quarant’anni fa piegò un’intera regione. Orgoglio e desiderio di ripartire. Sentimenti opposti tra curva e campo perché la squadra non rispecchia affatto lo spirito del suo popolo. Impacciata, timida, arrendevole: l’Udinese si sfilaccia sotto i colpi di un Toro dall’abito incantevole e si complica la vita in un rush finale palpitante. I bianconeri sono stati risucchiati nella furibonda lotta per retrocedere, servirà un altro atteggiamento per tirarsene fuori. Per fortuna il modello da osservare è proprio sotto il naso. Una tifoseria da applausi.

Voto 3 alla Fiorentina, appassita al tramonto –  Una bella donna invecchiata prematuramente. Così, tutt’a un tratto, diventata irriconoscibile. Se la Fiorentina si specchiasse, probabilmente resterebbe traumatizzata dal decadimento che l’ha colpita in appena pochi mesi. Un decadimento fisico, ma soprattutto mentale, che ha rapito quel bagliore così affascinante sostituendolo con un alone grigio. Questa Fiorentina è opaca, priva di originalità, la copia storta di sé stessa. E’ sempre la stessa storia: quando mancano le motivazioni, o anche soltanto la voglia di andare a caccia di sogni, l’epilogo più probabile è quello della remissione. Un lento e triste lasciarsi andare.

Voto 2 all’Inter, declino amaro – E’ necessario un certo distacco storico, e soprattutto emotivo, per analizzare determinati fenomeni. Quest’Inter è una squadra mediocre, priva di talento, composta da tante pedino operose, nulla di più. C’è chi riesce a farselo bastare, ma il distacco tra l’idea e l’azione deve essere colmato da una sconfinata dose motivazionale. Laddove il Leicester mette a segno il trionfo della classe operaia, puntando tutto sull’entusiasmo, l’Inter si perde nella sua mediocrità e si concede l’ennesimo arresto in un processo di lento intorpidimento. Quell’interminabile striscia di 1-0 con cui Mancini aveva costruito le basi per una rincorsa scudetto ne è la prova: una squadra bruttina, ma tremendamente cinica e difficile da affossare. A fare la differenza c’era la voglia di vincere, di compiere un’impresa. Ecco, quella voglia pare essersi smarrita. E giornata dopo giornata l’Inter si è mostrata al mondo per quella che è. Una squadra terribilmente mediocre e soprattutto, cosa ancora peggiore, incapace di emozionarsi.

Voto 1 al Milan e al gioco delle illusioni – Mutazione non è per forza sinonimo di progresso. La questione è comprendere dove e in che termini effettuare il cambiamento, non tanto il cambiamento in sé. L’avvicendamento in panchina tra Mihajlovic e Brocchi avrebbe dovuto stimolare, nella mente di Berlusconi e Galliani, una reazione significativa ad un ambiente scarico, sciolto in una spirale involutiva. Aspirazioni non soltanto disattese ma prontamente stracciate dal severo verdetto del campo. Risultati a parte, l’impressione è che i problemi siano ben lontani dalle scelte della guida tecnica, ma che risiedano nel subconscio di una squadra psicologicamente fragile. Questo Milan vive in un personalissimo Truman Show. Tutto sembra sempre andar bene, ogni sintomo di tracollo è prontamente smorzato o celato. Si cammina tra i trofei di un passato glorioso, illudendosi di farne ancora parte, senza riconoscere la finzione. Intanto anche la porta per l’Europa League rischia di chiudersi. E continuare a mentire a sé stessi risulta sempre più complicato.