Il deserto dei Tartari

La sconfitta di Marassi è un tracollo, a suo modo, desiderato. Le cause, punto per punto, della caduta più umiliante della recente storia bianconera.

PROLOGO

Lo sguardo di Giovanni Drogo ispeziona meticolosamente l’orizzonte dall’alto della Fortezza Bastiani, ultimo presidio di un confine dimenticato. L’assenza dei Tartari è annichilente più di un’eventuale invasione, Giovanni confida nel loro arrivo per rompere la maledizione di una lacerante attesa.

Nel romanzo “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, l’immobilismo di un avamposto che sorveglia il deserto avvizzisce il corpo di Drogo come il radicarsi delle abitudini avvelena la mente. I soldati della fortezza orientano le proprie giornate in funzione della battaglia mantenendo inalterato il regime di sorveglianza militare, fatto di ronde e di minuziose procedure, nel totale isolamento dal mondo. Mentre la vita lontano dalla fortezza si rinnova, in prossimità del deserto tutto finisce per ruotare intorno allo sguardo, teso e fiero verso un nuovo tramonto. La presunta minaccia di un nemico misterioso diventa l’unica, valida ragione di vita.

Il modo in cui il Genoa ha sconfitto la Juventus evoca i tratti di un’invasione. La crudezza dei contrasti, l’irruenza dell’assalto, il terrore negli occhi di chi è chiamato a difendersi. Esperienze traumatiche che torcono le budella: il miglior modo per sentirsi vivi, quando il colpo non uccide, l’anatema più efficace per sconvolgere il silenzio. Giovanni Drogo trascorre un’intera esistenza covando quel desiderio e, mentre tutto cambia, si logora nell’apparente eternità dell’attesa. Per i bianconeri quel momento è arrivato: si contano i feriti, si passano in rassegna le perdite. Scoprirsi fragili non è il peggiore dei mali.

ALLEGHI, COME DROGO

‹‹Ho detto all’arbitro che era giusto non fischiarlo, perché avremmo riaperto la partita, mentre oggi era giusto prendere una bella legnata, che ci farà bene per il resto della stagione››. Allegri accoglie la sconfitta come farebbe Drogo. Perdere una sola battaglia, soprattutto se in maniera sanguinosa, può essere la chiave per vincere la guerra. Ironia evidente ma ben direzionata.

Rallegrarsi di un torto subito – perché l’episodio del rigore non fischiato su Mandzukic lascia pochi dubbi all’interpretazione – è un’opzione curiosa quando la vastità degli interessi in gioco alimenta irrimediabilmente una poco elegante cultura dell’alibi. Allegri avrebbe l’occasione di appigliarsi ad un valido cavillo per giustificare, seppur flebilmente, una clamorosa disfatta pur non nascondendo la forza del proprio esercito – grazie a quell’episodio “avremmo riaperto la partita” – dando per scontato che una volta trovata la breccia, tutto sarebbe tristemente tornato alla normalità. Sottintende con una certa saccenteria che – nel caso di un rigore concesso e trasformato – la Juve si sarebbe rialzata, avrebbe compiuto l’ennesima rimonta, e ripristinato uno status quo emotivamente disadorno. Boriose vittorie su boriose vittorie: un po’ come le giornate, una lo specchio dell’altra, sull’etereo altopiano della Fortezza Bastiani.

Nel corso delle stesse dichiarazioni post partita, Allegri calca la mano su due aspetti che, a suo dire, hanno determinato la sconfitta, l’uno diretta conseguenza dell’altro: ‹‹Dopo la vittoria di martedì a Siviglia, credo ci sia stato un po’ di rilassamento. E’ come se avessimo mollato la presa››.. L’appagamento dopo un recente trionfo è l’anticamera di una caduta, specie per una squadra che si è sempre cucita addosso la fama di cannibale. Per Max la sconfitta contro il Genoa è maturata ancor prima di scendere in campo. L’avversario d’altro canto ha annusato che qualcosa non andava, e anziché barcamenarsi nella solita partita attendista, ha provato a mordere. La revenue è stata al di sopra delle aspettative.

I maligni rispolverano la teoria dello “scansarsi”, del farsi aprioristicamente da parte quando davanti ci sono i bianconeri, prendendo a modello proprio la gara di domenica: la Juve non va aspettata, ma aggredita, come se fosse una squadra qualunque. Il grande merito del Genoa, e di uno stratega come Juric, è quello di aver preparato la partita seguendo questa logica. Il secondo punto in questione, Allegri, lo stigmatizza con una serie di numeri: ‹‹25 falli totali del Genoa, 8 nostri; uno solo dei miei giocatori nel primo tempo e 14 loro››, tutti dati che esprimono in modo assoluto la discrasia nell’approccio. Stare addosso all’avversario, annebbiargli le idee anche solo con il ritmo della voce, fargli sentire il fiato sul collo è la rappresentazione più spicciola dell’atteggiamento che ha fatto la differenza. La Juve pensava di eseguire la solita esercitazione bellica, e invece si è trovata davanti il nemico, in carne ed ossa.

GLI AFFANNI DELLA RETROGUARDIA

L’arma segreta del successo bianconero, anche a dispetto dell’avvicendamento tra condottieri, rimane la stessa da cinque anni a questa parte, e non è preposta all’offesa. L’essenza della fortezza è la resistenza, la capacità di evitare gli urti, o di assorbirli, se necessario, quanto più dolcemente possibile. Se gli argini cedono, l’imbarcata è dietro l’angolo. La spiegazione più evidente del tracollo di Marassi risiede proprio in una difesa malconcia: l’assenza di due presidi tatticamente unici come Barzagli e Chiellini, il sovraccarico, fisico e mentale, di Bonucci e un asse di destra che genera apprensione in tutta la sua longitudine. Da Dani Alves, costretto a svolgere con impaccio mansioni da centrale, a Lichtsteiner, operoso ma qualitativamente inconsistente, fino ad arrivare a Cuadrado, irretito nella gabbia genoana, alla continua ma insensata ricerca di uno spazio dove poter liberare la sua corsa. Tolte le certezze e dato spazio alla fantasia – più per necessità che per capriccio, sia chiaro – il responso non è sempre gratificante. E così a fronte dei nove gol subiti in tredici partite ne piombano tre in meno di mezz’ora, un’imbarcata che non si verificava dalla notte dei tempi: era da un 3-1 a San Siro contro il Milan di undici anni fa che la Juve non incassava tre reti nel solo primo tempo.

GENOA, ITALY - NOVEMBER 27: Leonardo Bonucci of Juventus FC lies injured during the Serie A match between Genoa CFC and Juventus FC at Stadio Luigi Ferraris on November 27, 2016 in Genoa, Italy. (Photo by Marco Luzzani/Getty Images)

Urge una breve parentesi su Bonucci. Indicato dalla critica come il più forte difensore europeo, lui che di difensore – perlomeno in chiave “old school” – ha molto poco, perde sensibilmente efficacia in assenza di gregari posti al fianco per spianarne la strada. Domenica è’ parso un quarterback costretto a lanciare senza alcuna protezione, esposto ai fendenti rabbiosi degli avversari. Prima di attribuire valori in senso assoluto, bisogna tenere a mente che il rendimento è sempre frutto del contesto di riferimento. E stilare classifiche su chi sia stato il miglior difensore italiano non ha senso, indipendentemente dell’effettiva valutazione sul merito. Bonucci è Bonucci perché vive in un sistema quasi irripetibile. Si esalta al cospetto delle grandi sfide – nel successo di qualche giorno fa contro il Siviglia c’è anche il suo zampino – e soffre come qualunque altro uomo quando le pareti tutt’intorno crollano.

E’ un paradosso che il prologo della disfatta coincida con un suo colpo di tacco. Quel tocco maldestro è il segnale premonitore di un pomeriggio da incubo. Caduto l’assunto fondamentale – in questo caso l’ineffabilità della sua classe – il teorema si sgretola, passaggio dopo passaggio.

MEDIANA AL COLLASSO

Di fronte alla garra di Rincon, Rigoni e Laxalt il centrocampo bianconero ha mostrato tutte le sue falle. L’aggressività del Genoa, disposto con un 4-3-1-2 sbilanciato a sinistra, ha applicato una corrosiva sollecitazione sulla porzione di campo più debole degli avversari. Le costanti sovrapposizioni tra Ocampos e Laxalt hanno mandato in apprensione la catena di destra della Juve, alleggerendo le incursioni di Rigoni, chiave di volta del sistema genoano, pronto a creare sovrannumero nell’angolo cieco tra Dani Alves, Hernanes e Lichsteiner. La ridotta affinità tra le linee arretrate della Juve ha semplificato il lavoro, rendendo il gegenpressing del Grifone semplicemente letale, a maggior ragione se confrontato con il 65% di possesso palla e con il 58% di vantaggio territoriale ottenuti dai bianconeri. I dati indicano quanto a lungo, ma non dicono come si è sviluppata la manovra: si tratta di un accumulo di fraseggi perimetrali, fondamentalmente sterili sul piano dell’efficacia. Mantenere il pallone tra i piedi non è sempre fonte di garanzia da un punto di vista difensivo: lo si può sottrarre alla disponibilità degli avversari così come lo si può avvicinare ad una zona pericolosa. Il cardine è, ancora una volta, una questione di know-how, di comprendere i tempi e gli spazi per trasformare un mezzo (il possesso) in un fine (la porta). Mentre il Genoa ha razionalizzato le risorse, la Juve ha semplicemente occupato il tempo restante e le zone inutili.

Di solito, quando un sistema funziona, è in grado di esistere indipendentemente dagli organismi che lo compongono. Anzi, la supremazia del sistema, in relazione alla sua efficienza, è tale da preservare le debolezze del singolo mettendone in risalto, per converso, i pregi. In un clima di totale aberrazione, la mediana bianconera ha rigurgitato i suoi interpreti senza troppi complimenti, rendendo Hernanes, Pjanic e Khedira molecole tra loro non componibili: il brasiliano, oltre ad avere colpe evidenti sull’exploit del suo diretto antagonista Rigoni, ha innalzato a dismisura il coefficiente di sterilità del possesso; Khedira, sul quale pesano più di chiunque altro le scorie delle precedenti fatiche, non ha trovato la solita posizione chiave tra le linee, trovandosi spesso costretto a ripiegare di fronte all’avanzamento del baricentro genoano; Pjanic, d’altro canto, continua a costituire l’interrogativo più ingombrante: dovrebbe essere il collante tra i reparti, l’ingranaggio essenziale, invece restituisce un costante senso di inadeguatezza. Anche quando nella ripresa è stato spostato sulla trequarti si è dimostrato tutt’altro che incisivo. Ha agito male da filtro, e filtrato peggio il pallone. La punizione resta una pietra preziosa nel fango: non è un caso che il bosniaco brilli a gioco fermo, quando l’assenza di movimento restituisce ossigeno e favorisce il pensiero.

Genoa's Giovanni Simeone (C) scores the goal during the Italian Serie A soccer match Genoa CFC vs Juventus FC at Luigi Ferraris stadium in Genoa, Italy, 27 November 2016. ANSA/SIMONE ARVEDA

Le maggiori perplessità sulla composizione della rosa bianconera ruotano proprio intorno al centrocampo. Dal trittico Pogba-Marchisio-Vidal di qualche anno fa si è passati ad un uso ricorrente di Lemina, Hernanes e Sturaro che, con tutto il rispetto, sa di un evidente salto nel vuoto. Allegri, nell’attesa dei recuperi di Marchisio e Dybala, invoca due acquisti per il mercato di gennaio. L’identikit tracciato aderisce ad un prototipo di giocatore che sappia trattare il pallone ma che al tempo stesso sia in grado di colmare le scollature con la linea difensiva: esattamente quello che è mancato a Marassi.

LE DUE FACCE DELL’ATTACCO

Partiamo da un assunto incontestabile: quello che succede davanti alla porta è tendenzialmente il frutto di quanto nasce, cresce e si riproduce lontano da essa. Posto che il successo nella finalizzazione è la conseguenza terminale di un processo che coinvolge tutta la squadra, l’abilità dell’attaccante è quella di sconfessare, almeno parzialmente, la veridicità della premessa: un attaccante può segnare perché viene servito al momento e nel modo giusto, ma anche perché è in grado di fiutare un’occasione laddove gli altri scorgono il nulla. La distorsione del momentum è la linea di separazione tra un buon attaccante e un vero finalizzatore, e al tempo stesso un varco tra responsabilità e merito.

higuain-genoa-juve

La prestazione di Simeone da un lato e quella di Mandzukic e poi di Higuain dall’altro, procedono dunque su due binari paralleli, destinati a non incrociarsi mai. I meriti del Cholito, protagonista di un epilogo degno della più aurea epica cavalleresca – lui come il padre destinato a ferire a morte la Juve – vanno riletti alla luce dell’immensa tensione offensiva che coinvolto il Genoa nel suo insieme. Simeone si è ritrovato ad essere l’unusual hero di un pomeriggio in cui tutto filava per il verso giusto, in cui paradossalmente era difficile fare altrimenti. Tra le fila bianconere, il disagio che ha paralizzato la squadra nelle retrovie si è diffuso anche sul fronte offensivo, impedendo a Mandzukic – un centravanti di sistema, poco incline alla soluzione personale – di rendersi minimamente pericoloso. La consueta aggressività del croato, un marchio di fabbrica che sussiste a priori rispetto al trend della gara, ha finito peraltro per dissiparsi nella morsa dei difensori genoani. In una partita del genere, la svolta sarebbe dovuta arrivare da chi, per natura, è in possesso di maggiori spunti creativi. I 37 minuti giocati da Higuain non sono stati sufficienti per indurre una reazione, e così anziché stimolare una crescita intorno a sé, il Pipita si è lentamente adeguato al contesto in tutta la sua mediocrità. Lo zero alla voce dei tiri in porta risulta un dato allarmante se confrontato alla star quality di uno come Higuain, ancora immerso in una delicata transizione: lui, insieme a Pjanic, i prodotti più costosi di una campagna faraonica tesa diabolicamente ad indebolire le dirette concorrenti, stanno faticando più di molti altri in questa parte di stagione. Se i pezzi da novanta ancora non ingranano, è fisiologico che si aprano delle crepe.

IL LASCITO DELL’INVASIONE

Nel romanzo di Dino Buzzati l’unica vera battaglia è il conflitto senza armi tra l’esistenza all’interno della fortezza, immutabile nelle forme e nei colori, e la vita al di fuori del bastimento militare, imprevedibile nel suo dispiegarsi. Un metaforico duello tra un frame, reiterato nel tempo, e una sequenza di immagini che scorrono, sempre diverse, in una sola direzione.

Il ciclo da incubo che attenderà i bianconeri a partire dalla prossima giornata – Atalanta, Torino e Roma in sequenza – sarà il miglior banco di prova per testare la reale forza di questa Juve, anche al netto delle assenze di Dani Alves e Bonucci, travolti nella testa e nelle gambe dalla centrifuga di domenica. Data per assodata l’esistenza di diversi problemi strutturali, bisognerà affrontare non soltanto tre squadre in un ottimo stato di forma ma, ancor più profondamente, fare i conti con la propria fragilità.

L’impressione è che il tracollo di Marassi abbia infranto la monotonia delle apparenze e diradato i confini tra i due mondi, consentendo alla Juve di conoscere quello che Giovanni Drogo ha soltanto atteso: un’esperienza sconvolgente, che per quanto dolorosa, trabocca di vita.

I Tartari sono arrivati, e continueranno a far tremare la fortezza. Ridefinire nuovi equilibri e accettare la contesa  resta il modo migliore per mostrare il proprio valore.