Scottish Premier League: sta cambiando il vento?

Sgradevole ripetizione o insistenza di un motivo invariabile, tedio provocato da una piatta uniformità“. Se ancora non vi fosse sufficientemente chiara la definizione presente sul vocabolario, eccovi un altro esempio, ben più concreto, di monotonia: la Scottish Premiership o Scottish Premier League che dir si voglia. Campionato generalmente terra di conquista per Glasgow che vanta in bacheca 112 titoli sui 121 assegnati nella storia calcio scozzese.

La Scottish Premier League è infatti un torneo saldamente in mano alla city di Rangers e Celtic: 54 le affermazioni nazionali per i Teddy Bears, ultima delle quali nel 2011; 48 quelle degli Hoops che inseguono anche quest’anno l’ennesimo titolo cercando di portare avanti una striscia che li vede attualmente campioni consecutivamente da sei edizioni. Monotonia appunto; perché prenotando un biglietto aereo per Glasgow sei sicuro a maggio di poter festeggiare il titolo. O da una parte o dall’altra della città. Basti pensare che per trovare chi è stato in grado di spezzare questo duopolio occorre riportare indietro i calendari al 1985, quando l’Aberdeen di Sir Alex Ferguson riuscì nell’impresa.

Tuttavia, c’è un altro dato che evidenzia la monotonia dilagante in terra di kilt e taccagneria, cornamuse e scotch, castelli e golf, salmoni e Loch Ness: se storicamente è Glasgow a vincere, perlomeno fino a qualche tempo fa restava la ferma incertezza su chi tra Celtic e Rangers la spuntasse al termine del campionato. Recentemente invece non c’è stata neppure più questa gioia.

Nel 2011 il campionato fu vinto al fotofinish dai Rangers sul Celtic. 93 punti contro 92; una vittoria all’ultimo giro di un gran premio combattuto fino all’ultimo secondo pure nella classifica marcatori, con il light blue Kenny Miller che chiuse con 21 reti all’attivo contro le 20 del biancoverde Gary Hooper. Insomma, una corsa a due comunque avvincente. Peccato che il 2011 sarebbe tuttavia stato anche l’ultimo anno di questa lotta a sportellate hasta la muerte

Colpa dei Rangers, che il 21 ottobre 2012 hanno regalato al mondo un Halloween da paura col loro fallimento e la conseguente ripartenza dalla quarta serie. Da quel momento in poi l’unico motivo di interesse dalla Scottish Premier League è restato solo vedere di quanti punti i biancoverdi sarebbero riusciti a precedere sulle rivali impegnate a competere in un campionato a parte che aveva come massima aspirazione il secondo posto. Insomma, ancor meno motivi per seguire una lega che storicamente non ha offerto mai particolari stimoli.

Come detto, dal 2011 sono sei i titoli di fila per il Celtic. Tutti ottenuti con un imbarazzante vantaggio sulle seconde: +20 sui Rangers nel 2012, +16 sul Motherwell nel 2013, +29 sull’Aberdeen nel 2014, +17 nel 2015 sempre sui Dons, così come anche nel 2016 con +15, infine +30 ancora sull’Aberdeen lo scorso maggio. Una sfilza di punteggi da record (93-79-99-92-86-106, somma totale di 555 punti collezionati in sei anni, media che si attesta paurosamente sui 92,5 per stagione!). Lo scorso 2 aprile, con 8 turni d’anticipo, i ragazzi di Brendan Rodgers festeggiavano il titolo numero 48. La tripletta di Scott Sinclair di quel giorno, davanti a oltre 16mila spettatori sugli spalti del Tynecastle Park, casa dell’Hearth of Midlothian, serviva solo a certificare una supremacy annunciata: Celtic campione con 34 vittorie e 4 pari in 38 gare: 106 punti, 21 successi di fila tra settembre e marzo. Polverizzata insomma la (minima) concorrenza.

Quest’anno, però, qualcosa sembra essere cambiato. Guardando la classifica attuale della Scottish Premier League non emerge (almeno non in maniera così evidente) il divario annunciato. Il Celtic è primo, ovviamente. Ma i 51 punti dei biancoverdi sono solo otto in più rispetto ai 43 dell’Aberdeen, attualmente secondo. Le possibilità che The Dons scavalchino i campioni in carica è pressoché nulla, alla luce di equilibri che nessuno osa minimamente intaccare, ma resta una domanda: perché quest’anno Scott Brown e compagni non hanno creato una trincea a separar loro dal resto della plebaglia scozzese?

“Brendan Rodgers expects incomings and outgoings in January” si legge sull’autorevole The Scotsman, ma non si pensi al calciomercato come il motivo di questo dominio affermato in modo imperfetto. Le ragioni vanno ricercate nell’unico interlocutore che sbaglia raramente, ossia la matematica.

Va detto, come disclaimer, che il Celtic pulsa al ritmo del resto della Scottish Premier League. Lo scorso anno l’Aberdeen (secondo) ha messo in cascina 76 punti e allora a Glasgow hanno spinto sull’acceleratore per guadagnarsi il titolo; mentre ad esempio nel 2013 l’anti-Celtic era il modesto Motherwell che ha chiuso la stagione a quota 63 (e allora il Celtic ha abbassato la guardia, finendo comunque 16 punti avanti ai rivali). Ergo, un campionato più appassionante dipende dalla concorrenza. Che poi generalmente quest’ultima venga dilaniata come carne a brandelli, è un altro discorso.

Manca poi un cannoniere. Nel 2012 Hooper si laureava capocannoniere con 24 reti mettendone a segno solo 19 l’anno successivo (chiudendo al quinto posto in classifica marcatori). Nel 2014 il Celtic si appoggiava alle 27 esultanze di Kris Commons mentre nel 2015 si ringraziavano le 14 reti di Leigh Griffiths (secondo solo ad Adam Rooney dell’Aberdeen, in tetsa a quota 18). Nel 2016 Griffiths riprendeva il top della classifica marcatori con 31 reti, mentre lo scorso anno paradossalmente il Celtic non aveva un attaccante sul primo gradino del podio. Vinse il nordirlandese Liam Boyce, del Ross County, con 23 gol. Dietro di lui, però, dominio biancoverde: Scott Sinclair a 21, Moussa Dembélé a 17, Stuart Armstrong a 15. Potenza di fuoco, 53 reti in tre.

Un discorso a sé merita poi l’analisi della differenza reti. In questi sei anni la difesa del Celtic ha fatto in tal senso decisamente bene. 21, 35, 25, 17, 31 e 25 le reti subite. Decisamente poche soprattutto perché se sottratte alla prolificità offensiva si ottiene un saldo netto strabiliante: +63 nel 2012, +57 nel 2013, +77 nel 2014, +67 nel 2015, +62 nel 2016, addirittura +81 lo scorso anno. Tutto è bilanciato. Una difesa che concede tanto, in una squadra che segna a raffica, è meno decisiva in negativo.

In questa stagione invece, considerando che i capocannonieri biancoverdi sono al momento due centrocampisti (Sinclair a quota 8 e Forrest a quota 7), c’è certamente qualcosa che non va. In parole povere, mancano i gol delle punte. Quelli che, spesso, ti fanno vincere partite.

Lo scorso anno, dopo 21 giornate, il Celtic era questo: 61 punti in classifica, frutto di 20 vittorie e un pari, 55 reti all’attivo e soli 14 palloni raccolti nella propria porta. Quest’anno dopo 21 giornate i punti sono 50 frutto di 15 vittorie, 5 pari e una sconfitta, con 48 gol fatti e 15 subiti (il pari a reti inviolate nel derby di domenica scorsa valido per la 22ima giornata di Scottish Premier League non ha modificato le statistiche).

Considerato che i gol non arrivano a grappoli c’è da dire allora che anche la difesa non è stata imperforabile: anche a questo è servito l’acquisto del centrale Marvin Compper dall’RB Lipsia. Metteteci poi l’incredibile sconfitta del 17 dicembre, quando al Tynecastle Park (dove il 2 aprile 2017 il Celtic si era laureato campione) i tifosi del Celtic hanno osservato attonito il 4-0 rifilato dall’Heart of Midlothian FC a Ntcham e compagni. Vittoria griffata da due vecchie conoscenze del calcio italiano: Kyle Lafferty, in gol, e Manuel Milinkovic, di proprietà del Genoa ed autore di una doppietta più un assist. Tralasciando il poker subito, il Celtic non perdeva una partita in campionato dal lontano 11 maggio 2016.

“Go guys, go” continua a ruggire il Celtic Parc. La vittoria della Scottish Premier League almeno per quest’anno sembra ancora assicurata. “Ho visto devozione e ardore, sono cresciuto assieme a questi ragazzi, non ci sentiamo arrivati e continueremo a migliorarci ha affermato Brendan Rodgers. Sembra più un auspicio che una certezza. Perché il vento in Scozia forse sta cambiando.