riccardo cucchi

A tu per tu con Riccardo Cucchi

Se c’è un aggettivo che meglio degli altri descrive Riccardo Cucchi a mio parere questo è iconico. Per quella voce inconfondibile a lungo dolce compagna di domeniche passate incollati alla radio a immaginare una partita di pallone. Perché ultimo rappresentante di una generazione di narratori professionisti e professionali oggi ormai soffocata dal rumore sempre più improvvisato di social e tv. Iconico per quel “Campioni del Mondo“ pacatamente urlato nella notte di Berlino del 9 luglio del 2006. Iconico poi, permettetemi la divagazione personale, per me e per una tifoseria intera per quel “Sono le 18 e 4 minuti del 14 maggio 2000, la Lazio è Campione d’Italia”.

Per questo avere Riccardo Cucchi all’altro capo del telefono è stato emozionante ed allo stesso familiare. Un’atmosfera che ha fatto volare via un’ora di amabile conversazione alla quale lasciamo allora il dovuto spazio.

La sua carriera inizia nel 1979 quando dopo la laurea in Lettere viene assunto in RAI dopo aver vinto un concorso per radiotelecronisti sportivi. Chi era Riccardo Cucchi a quell’epoca?

“Un sognatore; un ragazzo che desiderava fare il mestiere di Ameri, Ciotti e Carosio che erano poi le “voci” che lo avevano accompagnato quando era ancora un bambino. Vincere quel concorso ed entrare in RAI schiuse le porte alla realizzazione di quel sogno”.

Perché questa vocazione per la radio?

“Io sono del 52’ e la mia, come spesso mi piace dire, è stata una generazione nativa radiofonica. Oggi, per fortuna direi, esistono molteplici strumenti di comunicazione; ma il ritmo della mia infanzia è stato scandito dalla radio. Passarono molti anni prima che la televisione entrasse definitivamente nelle case e così la mia scoperta del calcio avvenne attraverso la radiofonia ed in particolare “Tutto il calcio minuto per minuto”, trasmissione che vide gli albori il 10 gennaio 1960 e che ero solito seguire in compagnia delle mie figurine Panini: due strumenti rudimentali con cui ascoltavo e vivevo (diciamo meglio che immaginavo) il calcio ed i suoi magnifici protagonisti”.

Come proverebbe sintetizzerebbe il ruolo del commentatore radiofonico di eventi sportivi?

“Il radiocronista di calcio è colui che racconta a chi è all’ascolto dove si trova il pallone. Chi è dall’altra parte non ha immagini e spesso e volentieri non le ha neanche il radiocronista in postazione. Il che dal mio punto di vista è un grande pregio perché costringe a crearle attraverso le parole facendo sì che l’ascoltatore riesca ad immaginare il campo.

La telecronaca dovrebbe essere didascalia. La radio viceversa dovrebbe essere il racconto della fotografia e non può ridursi quindi a didascalia

Ultimamente capita sempre più spesso di ascoltare radiocronache senza riferimento a dove è il pallone con un impoverimento di quei termini tecnici che introdusse invece il buon Nicolò Carosio. Cose che creano confusione nell’ascoltatore togliendogli punti di riferimento e non aiutandolo dunque a capire il reale svolgimento dell’azione”.



Lei ha spesso parlato della radiocronaca come di un elogio alla sottrazione. Un mondo oggi dominato dalle immagini disponibili in real time tanto in televisione quanto sui social con le società di calcio che sono diventate sempre più delle proprie e vere media company quanto pensa abbia modificato o comunque influito sulla conduzione radiofonica e qual è il ruolo che secondo lei la radio ricopre ancora oggi nell’immaginario collettivo?

“Noto che mentre da ragazzino avevo come modelli di riferimento Ameri, Ciotti o Carosio che ho avuto la fortuna di conoscere da bambino, oggi i riferimenti non sono più legati al linguaggio radiofonico. In radio sento telecronache televisive, più avare di riferimenti e commenti; per contro in televisione si tende ormai ad inseguire la radio con telecronache piene di parole (troppe!) quando in realtà non c’è bisogno di dire troppe cose perché parlano già le immagini. La telecronaca dovrebbe essere didascalia. Martellini per esempio: quante pause e rispetto per l’occhio e l’orecchio dello spettatore c’erano nei suoi racconti? La radio viceversa dovrebbe essere il racconto della fotografia e non può ridursi quindi a didascalia. In radio il silenzio è nemico, in televisione no. Ed è per questo che ritengo veramente fastidioso questo continuo sentire parole durante una partita alla tv. Un pensiero sui social infine. Sicuramente hanno rivoluzionato il modo di comunicare consentendoci di entrare in contatto con persone che altrimenti difficilmente avremmo potuto raggiungere, e questo è importante. Ma nella narrazione sportiva hanno influito negativamente per gli aspetti deleteri che li hanno sminuiti nell’utilizzo sul piano personale. Si respira troppo odio e faziosità; troppa voglia di prendere parte ed essere parte anziché essere terzi mediatori come invece dovrebbero essere i giornalisti”.

Nella sua ultima radiocronaca (12 febbraio 2017 con Inter-Empoli della 24ª giornata di campionato di Serie A) ha dichiarato che Tutto il calcio minuto per minuto continuerà ad esistere finché esisterà la passione dell’ascoltatore. A quasi tre anni da quel giorno è ancora convinto di questa affermazione?

“Assolutamente sì e le spiego perché. Consideri che negli anni 60’ in radio si registravano 20-25 milioni di ascoltatori. Parliamo di un’audience che non è praticamente mai stata raggiunta neanche da eventi televisivi. Un record storico importantissimo legato al fatto che la radio a quei tempi era l’unico mezzo. I Mondiali del ‘70 rappresentarono l’inizio di una nuova era. Furono infatti i primi ad essere trasmessi in modo continuativo dalla RAI. Italia-Germania 4-3 ha iniziato a far scricchiolare la radio e la progressiva presa di possesso della televisione ha messo ai margini il mezzo. Oggi “Tutto il calcio minuto per minuto” viaggia tra 1 e 3,5 milioni di ascoltatori. Numeri sicuramente onesti sui quali influisce per altro la programmazione spezzatino della Serie A che ha anche ridotto l’importanza tecnica delle partite programmate nella fascia pomeridiana. Ma tutto ciò premesso, sa perché la radio continuerà a vivere? Perché l’immagine potrà anche essere prediletta, ma a condizione che si abbia il budget per acquistarla. La trasmissione delle partite all’epoca non si pagava mentre oggi per vedere una partita in televisione bisogna pagare. E spesso si tratta di un esborso oneroso che non è detto porti ancora le famiglie a mettere al centro della programmazione economica il calcio. Non solo. E’ cambiata moltissimo la situazione anche per chi è solito andare allo stadio. Con le partite spalmate su più giorni non si può mai sapere quando si giocherà e la programmazione della propria vita non può necessariamente ruotare intorno al gioco del calcio. Allo stesso tempo però chi non vuole fare l’abbonamento deve mettere in preventivo che i costi per assistere ad una gara di cartello possono essere esorbitanti come è accaduto a Milano per il derby oppure a Lecce in occasione della sfida con la Juventus. Ecco, davanti a tutto questo, la radio c’è! Chi non può o non vuole sottoscrivere due abbonamenti alla pay-tv per seguire la propria squadra del cuore, chi non vuole acquistare un abbonamento o non riesce ad organizzare la propria vita privata per stare dietro allo spezzatino; chi anche solo semplicemente sale in macchina perché ha altre cose più importanti da fare, ecco, tutti questi sanno che la radio c’è. E se la nostra passione nei confronti del calcio rimarrà così forte, la radio esisterà”.

Lungo la sua carriera ha avuto il privilegio di raccontare da protagonista otto Olimpiadi, sei Mondiali di calcio, tra cui quello di Germania 2006, e 19 scudetti compreso quello vinto dalla sua Lazio. Eppure, in un’intervista al Corriere dello Sport di qualche tempo fa, ha dichiarato che il ricordo che custodisce con maggiore gelosia è una partita a San Siro affianco ad Enrico Ameri dove il suo compito era prendere il conto dei calci d’angolo. È veramente questo il momento al quale si sente maggiormente legato?

“La notte di Berlino come posso dimenticarla, è una cosa che porto impressa nel cuore. Se penso che Sandro Ciotti nella sua immensa carriera non riuscì mai a gridare Campioni del Mondo sono ancora commosso ed emozionato. Ma la prima volta che sono entrato nello stadio non da radioascoltatore e non da tifoso che andava in curva a vedere la sua Lazio l’ho fatto accanto al principe delle radiocronache. E non come ascoltatore ma come apprendista; con l’opportunità di poter rubare pezzi del suo modo di commentare da quello che era il mio eroe da bambino. E così, anche se dovevo solo tener la conta degli angoli, per me quella è stata un’emozione fortissima. E poi, per raccontarla tutta, venni anche coinvolto nell’intervista post partita con la grande opportunità di essere guidato da Ameri: un’esperienza che mi fece tremare le gambe. Insomma, ero accanto al mio maestro per quello che, col senno di poi, si è rivelato l’inizio di una straordinaria avventura che, guardandomi oggi alle spalle, all’epoca non potevo neanche sognare”.



Il 14 maggio 2000, come detto, ha commentato con la consueta professionalità lo scudetto della Lazio, squadra per la quale solo a fine carriera, come da sempre promesso, ha dichiarato apertamente di tifare. Come ha fatto in tutti questi anni a restare così irreprensibile e quanto pensa questo possa aver inciso sull’affetto che l’ha circondata al momento del suo addio alle radiocronache?

“Credo molto. Lo striscione che mi hanno dedicato gli interisti il giorno della mia ultima radiocronaca è stato emozionante; è stata la sottolineatura di come ci sia stata fiducia nei miei confronti in tutti questi anni. Loro mi ricordano come la voce del triplete ma penso che in generale ci sia stato rispetto per la passione e la professionalità che ho messo nel raccontare questo sport. Per fare questo mestiere contano gli occhi e la capacità di saper cogliere il momento. È forse questo il motivo per cui l’ascoltatore radiofonico si immedesima nel radiocronista, perché avverte quella vicinanza con chi racconta la partita così come la vede il tifoso; senza la fiction delle decine di telecamere che oggi riprendono l’evento. Una partita allo stadio non è un film, è un’altra cosa. Devo dire che per me è stato abbastanza semplice e naturale mantenere un atteggiamento professionale. In primis perché era un requisito imprescindibile per il servizio pubblico: al centro di tutto c’è sempre stato il rispetto per l’ascoltatore e non era consentito parteggiare. In secondo luogo, perché ritengo che la terzietà dovrebbe essere un valore per chi fa questo mestiere a prescindere dal lavorare o meno nel servizio pubblico. Ritengo che un giornalista sportivo dovrebbe essere super partes eccetto quando si parla di Nazionale. Se gridi gol con eccessivo trasporto devi sempre considerare che in quel momento stai facendo felice qualcuno ma allo stesso tempo stai ferendo chi la rete l’ha subita. E questo va evitato. Non condivido l’utilizzo di certi termini tanto in voga oggi come “ha umiliato l’avversario”. Io non ho mai usato il verbo umiliare nella mia vita. Nello sport non si umilia. Si vince se si è più bravi o magari più fortunati ma vincere non è umiliare. Rispetto è il principio guida che ho usato nella mia carriera. Se avessi dichiarato in anticipo di essere laziale chi era all’ascolto avrebbe potuto confondere aggettivi e commenti più o meno giusti o azzeccati per il solo fatto di aver dichiarato la mia fede calcistica. L’ascoltatore deve credere in quello che dico; se non c’è fiducia finisce il gioco della radio. Ho sempre prestato attenzione nell’essere leale verso l’ascoltatore e devo dire che mi è riuscito senza faticare molto. Detto questo, non nego che dopo aver chiuso il microfono a Perugia è uscita la lacrima”.

Quanto invece sta pagando oggi questo “outing” calcistico considerato gli attacchi beceri che ha subito sui social in queste ultime settimane?

“Ha influito. È la conferma della giustezza della mia scelta portata avanti per 40 anni di carriera di non dichiarare la mia fede. E pensi a quante volte mi è stata posta questa domanda da chi mi riconosceva fuori dagli stadi. Oggi, anche se cerco di essere sempre leale e rispettoso, qualche volta può capitarmi di parlare con maggiore passione e magari mi sbilancio maggiormente e qualcuno coglie questa mia umana debolezza e non perde occasione per rovesciarmela contro. Nel caso recente degli attacchi subiti per la mia presa di posizione sul saluto romano dei tifosi laziali a Glasgow voglio poi fare una precisazione: ritengo assolutamente che lo sport non debba essere terreno di politica, violenza, razzismo e xenofobia. E da tifoso laziale sono veramente stanco di essere confuso in Italia e in Europa con un numero ristretto di tifosi che si definiscono laziali fascisti e che invece penso siano solo degli stupidi.

Ci tengo a ribadire che la mia è una presa di posizione nettissima contro i saluti romani, la politica allo stadio in generale, contro la violenza verbale e fisica, il razzismo, la discriminazione sociale e la xenofobia. Il calcio non deve e non può essere un porto franco per liberare tutto quello che nella società se si manifesta viene punito giuridicamente. Non deve dunque essere soggiogato al volere di pochi”.

Il calcio non è solo un gioco è molto di più. E l’unico modo di aderire al calcio è guardarlo con gli occhi con cui lo guardano i bambini


riccardo cucchi

A proposito di Lazio, mentre mi concede questi piacevolissimi minuti la squadra di Inzaghi è praticamente con tutti e due i piedi fuori dall’Europa. Quale crede siano le cause di questo epilogo e più in generale, da professionista ma anche da tifoso, cosa pensa manchi alla Lazio per effettuare quel salto di qualità che la piazza attende ormai da anni?

“Credo che la Lazio sia un’ottima squadra con alcuni elementi di assoluto valore tecnico come Luis Alberto, Leiva, Acerbi e Immobile. Ma credo anche abbia dei limiti tecnici evidenti e ricambi poco adeguati. Ha però un vantaggio: quello di avere lo stesso allenatore da molto tempo che ha instaurato con la squadra un feeling tecnico ed umano che sicuramente agevola la gestione del gruppo. Dovrebbe migliorare la fase difensiva e poi lavorare sulla continuità. Quella probabilmente manca e mantenerla nel calcio è difficile. Sembrerebbe un lavoro facile perché stiamo parlando di professionisti ma umanamente perseguire la continuità è difficile. Ed il fatto che mentre in campionato le cose sembrano andare bene c’è da fare i conti con quanto successo in Europa League dove la qualificazione ai sedicesimi sembra ormai compromessa è abbastanza emblematico in tal senso. Ai critici più aspri voglio comunque ricordare che la Lazio è la squadra che in Italia ha vinto di più dopo la Juventus negli ultimi anni e questo qualche cosa dovrà pur contare”.

Tra i giocatori di assoluto valore tecnico non ha citato Milinkovic Savic. È una dimenticanza o l’ha fatto volutamente?

“Volutamente perché a mio parere Milinkovic Savic è l’elemento che più di tutti dimostra questa assenza di continuità e questo è un problema per la Lazio e per il ragazzo. Per certi versi squadra e giocatore si assomigliano: se entrambi diventassero continui ci si divertirebbe tutti di più. Forse in questa stagione è un po’ sacrificato. L’impiego da mediano anziché da mezzala dove Inzaghi preferisce invece far muovere Luis Alberto lo sta un po’ condizionando. Ma sono sicuro che Milinkovic può fare di più. Se fosse costantemente concentrato ed agonisticamente più cattivo sarebbe un vantaggio per lui e la Lazio”.

La domanda diventa d’obbligo: secondo lei Milinkovic Savic vale 120 milioni di euro?

“Sulle valutazioni che vengono fatte nel mondo del calcio sono sempre stato molto scettico. Ritengo però viga una legge che quella che regola ogni transazione: è il mercato che fa il prezzo. E se non riesco a vendere Milinkovic per 120 o 80 milioni vuol dire che il prezzo non è adeguato. Si può inventare qualunque cifra, ma la valutazione alla fine la fa il mercato”.

Come giudica quanto sta accadendo a Napoli in questi giorni e quali pensa possano essere le reali motivazioni che hanno portato al clamoroso ammutinamento dopo il match con il Salisburgo?

“Napoli è una piazza meravigliosa. Li adoro perché hanno la capacità di infiammarsi e vivere per il calcio come in pochi altri posti. Sotto il Vesuvio il calcio non è un momento di sport ma una ragione di vita e la squadra di calcio rappresenta la città in modo integrale. Un po’ come avvenne a Cagliari ed in tutta la Sardegna ai tempi di Gigi Riva. Certo, questo porta con sé vantaggi e svantaggi e tra questi ultimi il fatto che aumentano i rischi e che la pressione può diventare eccessiva ed esagerata. Si veda in tal senso il rapporto quasi morboso con Sarri, il Comandante, che aveva scavalcato nelle preferenze dei tifosi il presidente artefice del rilancio del Napoli. Ancelotti è sicuramente più ragionevole; un tipo calmo e pacato, e pensavo potesse fare bene ed “educare” De Laurentiis ed i tifosi. Invece è successo qualcosa di diverso. La reazione dei calciatori alle decisioni prese dalla società e l’allenatore in queste ultime settimane è un segnale pericoloso. E penso che la cosa più grave sia la mancanza di rispetto nei confronti dei tifosi. Perché devi rispetto al presidente, ma anche e soprattutto ai tifosi senza i quali il giocattolo non regge. L’ammutinamento, da alcuni descritto in maniera accentuata e da altri pacata, è comunque un fatto grave prima di tutto perché rivela una mancanza di rispetto nei confronti dei tifosi. Onestamente non riesco a capire però chi sia il destinatario del messaggio che i calciatori vogliono mandare. Se il Presidente De Laurentiis oppure se una presa di posizione nei confronti di Carlo. In questo secondo caso però la riterrei una cosa grave perché i giocatori dovrebbero essere orgogliosi di essere guidati da un tecnico di tale caratura. Concludo suggerendo che sarebbe comunque opportuno avere buon senso e dosare i comportamenti perché tutto viene amplificato ed è sempre difficile alla fine capire chi ha ragione. Anche perché in questo caso in troppi hanno sbagliato”.

Ci permetta ancora un ultimo salto nel passato: qual è il personaggio o l’evento sportivo che non ha intervistato o commentato ed avrebbe invece voluto raccontare e perché?

“Facciamo un salto molto lontano nel tempo. Si tratta di una favola meravigliosa emblema del racconto sportivo: quella di Dorando Pietri alle Olimpiadi di Londra del 1908. Dorando Pietri era un maratoneta e come tale partecipò a quelle Olimpiadi. Era per altro quella la prima volta che la gara si snodava su 42,195 km il che richiese una preparazione molto dura per quelli che erano i mezzi a quei tempi. Gli atleti al via erano 56 ma quando Pietri entra nello Stadio Olimpico ha un vantaggio clamoroso sugli inseguitori. Solo che è esausto. Prima sbaglia strada e solo con l’aiuto dei giudici riesce a imboccare la pista che dovrebbe portarlo a tagliare il traguardo. Poi per percorrere quegli ultimi 500 metri impiega 10 minuti. O almeno questo è quello che racconterà Arthur Conan Doyle, il papà di Sherlock Holmes, nella sua cronaca redatta per il Daily Mail. Dorando Pietri ha infatti esaurito le energie e barcolla, zoppica, cade e si rialza in continuazione. La commozione dei 75 mila spettatori presenti allo stadio e degli addetti ai lavori è tale che per consentire a Pietri di tagliare il filo di lana dell’arrivo intervengono medici e giudici di gara che lo sorreggono e lo accompagnano al traguardo. Andando però contro il regolamento. Dorando Pietri viene così squalificato, ma la sua mancata impresa passa comunque agli annali. Ecco, questa è la storia che mi sarebbe piaciuto poter raccontare alla radio. Ma qualcosa in tal senso ho indirettamente fatto. Ad esattamente 80 anni di distanza da quel giorno ho infatti avuto l’occasione di narrare la prima affermazione olimpica nella maratona di un italiano, Gelindo Bordin, a Seul 1988. Ed in quella circostanza ne ho approfittato per raccontare le gesta di Dorando Pietri alla radio”.

Ringraziandola ancora una volta per la disponibilità e per questa piacevolissima ora trascorsa insieme, vorremmo farle un’ultima domanda per chiudere il cerchio rispetto a come abbiamo aperto questa intervista: chi è Riccardo Cucchi oggi?

“Il bambino che era (per fortuna). Perché noi che amiamo il calcio rimaniamo bambini. Mi emoziono, anche oggi che ho 67 anni, quando entrando in un impianto riesco ancora a trovare il calore della gente, quella passione che ho respirato io da bambino quando a 8 anni ho cominciato a frequentare lo stadio. Per questo mi arrabbio quando vedo o leggo cattiverie, perché si perde di vista la passione per uno sport capace di attrarre letterati e poeti; che ha ispirato la pubblicazione di libri memorabili. Perché il calcio ha questa capacità di diventare mito e leggenda. Nei giorni scorsi si è festeggiato Gigi Riva. Ecco, lui è proprio un esempio di come sia possibile trasformare il calcio in leggenda, vita e poesia. Il calcio non è solo un gioco è molto di più. E l’unico modo di aderire al calcio è guardarlo con gli occhi con cui lo guardano i bambini”.


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