Felipe Anderson

Nulla si crera, nulla si distrugge, tutto si trasforma. La metamorfosi di Felipe Anderson

Nulla si crera, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Il postulato fondamentale di Lavoisier sul quale poggia la legge della conservazione della massa calza anche a pennello quando si vuole analizzare puntualmente la metamorfosi di Felipe Anderson in questa stagione.

A lungo inseguito dalla Lazio, il brasiliano sbarca a Roma il 9 luglio del 2013 con l’etichetta del talento cristallino ed un investimento di 8,5 milioni di euro che ne fanno uno degli acquisti più onerosi dell’era Lotito. La prima stagione in biancoceleste è quella dell’anonimato. La seconda è quella della parziale esplosione. La terza annata nella capitale, la scorsa, è quella dell’involuzione. E poi eccoci alla stagione in corso, quella della normalizzazione di Felipe Anderson. Che è poi alla base della sua consacrazione. Ma andiamo con ordine.

Dio, il Santos ed il difficile approdo a Roma

Felipe Anderson nasce a Brasilia il 15 aprile 1993. Famiglia umile la sua: papà netturbino e mamma casalinga. Come ogni brasiliano che si rispetti due sono i pilastri su cui si fonda la sua infanzia: l’amore per Dio e quello per il pallone. Sacro e profano. Ovunque. Ma non in Brasile dove entrambe le sfere, quelle alte e quelle fisiche, sono religioni fra di loro equivalenti. Il percorso di Felipe Anderson comincia all’età di 6 anni nell’Associação 14 Companhia de Polícia Militar Independente. Poco dopo si trasferisce al Federal FC dove gioca fino al 2006, anno in cui viene ingaggiato dal Sport Clube Recreativo Gaminha FC. Dopo alcune buone prestazioni viene ingaggiato dall’Astral EC. Insomma, i primi 7 anni di vita calcistica di Felipe Anderson non sono certo sotto l’egida dei grandi club.

Sono di Brasilia, frequentavo una scuola per meno fortunati, la mia famiglia è stata sempre molto semplice, non poteva permettersi di farmi allenare con una buona squadra. Grazie a Dio un imprenditore si è accorto di me e mi ha portato al Santos nel 2007″

A volte il talento non basta. A volte è necessaria anche una buona dose di fortuna. E trovarsi al posto giusto al momento giusto. Cosa che accade nell’estate del 2007 quando un dirigente del Santos nota Felipe Anderson e decide di portarlo nel club che fu di Pelé. La trafila nelle giovanili dura un triennio. Poi, nel 2010, l’esordio in prima squadra. Dall’Associação 14 Companhia de Polícia Militar Independente al Santos il passo è grande. Gioca accanto a Robinho ed alle promesse Ganso e Neymar. E lo fa con il numero 10 sulle spalle. Il numero 10 di O Rei. Perché di quella nidiata di giovani promesse Felipe Anderson in patria è riconosciuto come il più talentuoso. Il tempo ci racconterà che forse i brasiliani non ci avevano visto proprio lungo. Ma che comunque non si erano sbagliati poi più di tanto.

Chi ci vede invece lungo è Claudio Lotito (o forse Igli Tare) che già dall’estate del 2012 comincia quella che si rivelerà col senno di poi una lunga corte al brasiliano. Felipe Anderson sembra sul punto di sbarcare all’ombra del Cupolone già ad agosto di quell’anno. Poi l’affare slitta a gennaio a causa di quell’assurda regola tutta sudamericana per la quale il cartellino di un giocatore può essere frazionato tra una miriade di proprietari. Interlocutori più o meno autorizzati si affacciano per battere cassa prima che venga finalmente individuato nel Dojen Sports il soggetto con cui trattare. Ora, una trattativa che vede Lotito come protagonista è già di per se complicata per definizione. Se poi in mezzo ci si mette un club in crisi finanziaria che necessita di monetizzare con la vendita a peso d’oro dei suoi gioielli ed un fondo detentore della metà del cartellino del giocatore che spesso e volentieri sembra volerla buttarla in confusione, il caos è assicurato. Il calciomercato invernale si chiude con Felipe Anderson pronto a sbarcare a Roma ed un presunto fax internazionale che non arriverà mai a destinazione facendo saltare l’operazione sul filo di lana. Come questo sia possibile nell’era della digitalizzazione è più che un mistero. Le parti per fortuna trovano un accordo l’estate successiva quando Felipe Anderson finalmente diventa un giocatore della Lazio sottoscrivendo un quinquennale da 800 milioni a stagione.

Dalle stalle alle stelle, l’andata e ritorno di Felipe Anderson

Chi si aspetta un Felipe Anderson funambolico è presto deluso. La Lazio è reduce dalla vittoria in Coppa Italia contro la Roma e conferma ad inizio stagione l’artefice di quel successo, Vladimir Petkovic. Scelta deleteria frutto prevalentemente della gratitudine e non certo all’insegna della tecnica. Il tecnico bosniaco naturalizzato svizzero aveva infatti stupito la stagione precedente fino al termine del girone di andata (ancora oggi il migliore in termini di punti dell’era Lotito) salvo poi crollare nella seconda parte della stagione quando un gioco prevedibile e troppo fedele a se stesso era stato ampiamente metabolizzato dai marpioni della tattica nostrana costringendo la Lazio a giocarsi la stagione nella delicatissima finale di Coppa contro i cugini della Roma. Che quell’anno però non se la passava poi molto meglio. Il gol di Lulic e la Coppa in faccia avevano premiato più del dovuto l’operato di Petkovic.

Con Vladimir detto Vlado in panchina Felipe Anderson vede il campo con il contagocce. Con Edy Reja…pure. Va un po’ meglio in Europa League dove il brasiliano gioca con maggiore continuità mettendo anche a segno la sua prima rete con la maglia della Lazio. E’ il 28 novembre ed i biancocelesti si impongono 2-0 sul Legia Varsavia. La prima stagione capitolina di Felipe Anderson si chiude con 20 presenze per un totale di 983’ minuti giocati ed un solo gol. Ci si aspettava un campione ed invece era arrivato un brocco. Questa l’opinione generale di quelli che già rimpiangevano gli 8,5 milioni spesi per un giocatore che non correva, non dribblava e figuriamoci se segnava. Una vera e propria tragedia.

Che si trascina fino ad una domenica di dicembre quando a Parma avviene lo Sliding Doors di Felipe Anderson. L’infortunio al ginocchio della domenica precedente di Antonio Candreva spalanca al brasiliano le porte per una maglia da titolare nella trasferta al Tardini. L’ex Santos se la cava niente male ed al 59’, pochi minuti prima di lasciare il posto a Keita, sigla quello che si rivelerà essere il gol vittoria. Non un gol d’antologia. E’ un semplicissimo tocco a porta vuota al termine di una magistrale azione di contropiede. E’ l’inizio di quattro mesi di assoluto protagonismo che condurranno la Lazio di Pioli ai preliminari di Champions League.

Corsa, dribbling, scatti brucianti, assist e gol. Felipe Anderson da dicembre ad aprile è un giocatore completamente diverso da quello visto ciondolare in giro per il campo fino a quella domenica a Parma. L’improvvisa metamorfosi del brasiliano passa anche per l’infortunio di Candreva, vero catalizzatore del gioco biancoceleste quando è sul rettangolo verde di gioco. Ma senza l’esterno di Tor de Cenci è Felipe Anderson ad assurgere a ruolo di catalizzatore della manovra biancoceleste. Anche perché gli riesce veramente qualsiasi cosa. Se gli dessero del pane e dei pesci da moltiplicare, probabilmente gli riuscirebbe anche quello.

Il 13 dicembre, nel 3-0 all’Atalanta, Felipe Anderson sforna i due assist per la doppietta di Stefano Mauri. La domenica successiva, a San Siro, arriva la prima doppietta in biancoceleste. Il primo gol è un concentrato di tecnica: stop di interno sinistro, di mezzo balzo, a seguire e conclusione fulminea ad incrociare. La seconda rete è un po’ il marchio di fabbrica del brasiliano. Scatto bruciante in profondità palla al piede, dribbling a rientrare sul destro per accentrarsi e poi, al momento giusto, conclusione in perpendicolare sul primo palo che non lascia scampo al portiere. L’Inter alla fine troverà il pareggio. Ma alla Scala del calcio è sbocciato definitivamente Felipe Anderson. Il 5 gennaio 2015, al rientro dalla sosta, l’ex Santos serve altri due assist e sigla il gol del definitivo 3-0 con quello che diventerà un altro pezzo forte del suo repertorio. La sassata da fuori area. Numero che il brasiliano esibirà anche il turno successivo nel derby con la Roma, dopo aver agevolato con un pregevole cucchiaio al termine dell’ennesima cavalcata il primo gol di Mauri. Un infortunio al ginocchio e tre marcatori a partita finiranno per penalizzarlo un po’. Nella volata finale che a fine campionato condurrà la Lazio in Champions, la stella di Felipe Anderson si affievolirà. Il brasiliano nelle ultime dieci giornate di campionato metterà la firma appena due volte con un gol all’Empoli ed un assist contro l’Inter.

E’ il preludio ad una stagione, la successiva, nata con grandi aspettative ed invece consegnata presto all’anonimato. Un Felipe Anderson spaesato e spento come tutta la Lazio del resto. Un Felipe Anderson lontano anni luce da quello che, solo l’altro ieri, aveva incantato i tifosi biancocelesti e non solo, con quattro mesi di altissimo livello. Quattro mesi di grande calcio in tre stagioni. Decisamente un po’ pochino.

La stagione della normalizzazione…e della consacrazione

In quella che sembrava destinata a passare alla storia come una delle stagioni più travagliate dell’era Lotito, ecco infine la resurrezione di Felipe Anderson. O meglio, la sua normalizzazione. Meglio ancora, la scoperta della giusta dimensione.

La cervellotica gestione dell’affaire panchina, Bielsa si-Bielsa no, si è rivelata essere la fortuna della Lazio e di Felipe Anderson. Il mal di pancia del brasiliano, chiamiamola saudade per quieto vivere, si era palesata con vigore a ridosso dell’inizio della stagione. Una grana non da poco per una società già alle prese con i malumori di Keita. Il funambolo ex Santos voleva a tutti i costi le Olimpiadi in patria con il suo Brasile. Ma El loco Bielsa, all’epoca ad un passo dalla panchina della Lazio, aveva posto il veto. Le parti, Lazio e Felipe Anderson, sembravano ad un passo dallo scontro tanto che il brasiliano non si era presentato alle visite mediche previste prima della partenza per il ritiro di Auronzo. Poi, saltata la trattativa con El loco, la svolta. Simone Inzaghi concede il suo ok affinché il brasiliano possa restare in Brasile e partecipare al suo sogno. Il giocatore ringrazia, si rasserena, vince l’oro olimpico e torna a Roma pieno di gratitudine nei confronti di Inzaghino. Ed è l’inizio dell’idillio.

Il mister cambia completamente la storia tattica di Felipe Anderson. Gli insegna a coprire tutta la fascia e lo educa all’altruismo. I numeri sono sorprendenti. Il brasiliano infatti è il re della classifica degli assist serviti (8) insieme a Birsa e Callejon. E’ l’incontrastato dominatore della graduatoria dei passaggi chiave: sono ben 56 le volte che Felipe Anderson ha liberato un suo compagno al tiro. C’è poi un altro dato che descrive perfettamente la metamorfosi altruistica del brasiliano. Felipe Anderson vanta infatti la bellezza di 89 contrasti vinti riuscendo a fare meglio dei difensori Toloi (67) e Miranda (65) e di un mastino come Allan (53). Un numero questo per certi versi anomalo per chi scende in campo vestendo la maglia numero 10.

Ma è il numero che probabilmente meglio certifica l’evoluzione di Felipe Anderson, un giocatore che in questa stagione sta stupendo per abnegazione, spirito di sacrificio, altruismo e soprattutto continuità. Elemento, quest’ultimo, imprescindibile per affermarsi a certi livelli e che spesso era mancato nella storia recente del ragazzo.

“Lavorando a centrocampo diventi anche più forte. Io ero una punta, poi ho trovato più spazio per sfruttare la mia velocità. Sulle fasce riesco spesso ad andare uno contro uno e ho la possibilità di cambiare passo, che è una delle mie caratteristiche”

Quella che era stata un’intuizione di Pioli, lo spostamento laterale, è stata poi perfezionata da Simone Inzaghi bravo ad imprimere uno status europeo ad un giocatore altrimenti troppo brasiliano per il vecchio continente. Quello di oggi è un Felipe Anderson completamente diverso da quello che ha calcato i campi della Serie A nelle scorse stagioni. E’ un giocatore più completo; sicuramente più maturo. E senza dubbio più utile alla causa. Anche perché nonostante l’evoluzione tattica non ha certo perso quel senso estetico e quel guizzo devastante che lo portano a fare la differenza a ridosso od all’interno dell’area di rigore.

“Partecipo abbastanza alla costruzione del gioco del basso. 

Ma, allo stesso tempo, ogni volta che ne ho la possibilità, provo ad entrare in area

e fare il mio”

Perché quando la massa c’è, non c’è nulla che si crei o nulla che si distrugga. Semplicemente, tutto si trasforma.