El fútbol mas hermoso del mundo: viaggio alla scoperta del calcio sudamericano

Sono così le storie del calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni”. Così scrive Osvaldo Soriano, che all’epoca del Maracanaço aveva soli 7 anni. A quella tenera età è comprensibile che non avesse pienamente compreso la portata di quell’evento, visto che quel 16 luglio 1950 sarebbe stato l’ultimo giorno di vita per moltissimi brasiliani. Infarti, suicidi, pianti, incredulità, commozione e disperato tentativo di cancellare una pena così severa per l’atto di ὕβϱις del quale si erano appena macchiati. Il resto è storia, tra Alcides Ghiggia e Moacir Barbosa, tra Zizinho e Odbulio Varela. Tutto materiale defluito in Fútbol, il contenitore di questa e mille altre storie che nel 1998 riaprì tra le altre cose una ferita mai realmente cicatrizzatasi. Il motivo è semplice: non ci troviamo in Spagna, tra Camp Nou e Bernabeu, né a Londra o tanto meno Berlino.

Scordatevi i grandi giocatori in campo, le stelle del firmamento calcistico tutte radunate nella Via Lattea del pallone, l’Europa. Dimenticate gli sponsor, i diritti televisivi, la preponderanza della tattica che in molti casi arriva a limitare la naturalezza di quell’atto così semplice che è l’aver un pallone tra i piedi. Perché, in Sud-america, il calcio è libero di proliferare nel modo più semplice possibile: tutti funamboli, giocolieri, esteti, cultori di un sentimento che in terra nostrana viene repentinamente ingabbiato. Manco fossero dei ladri, i loro atti vengono repressi con incredibile durezza. Ma qui, tra la caotica Baires e una Rio traboccante di vita, caipirinhe e Brasileirão, c’è un’oasi dove poter ammirare il calcio vero. Quello che conserva orgogliosamente la sua accezione popolare, quello con coreografie mozzafiato e torcide da urlo, quello che viene stigmatizzato a La Boca piuttosto che a El Monumental.

Ecco, questa settimana abbiamo deciso di portarvi dall’altra parte del Mondo per fare il punto sui principali campionati (e talenti) sudamericani.

ARGENTINA

Non partire dall’Argentina sarebbe un oltraggio bello e buono. Perché qui il pallone è affare di stato (basti pensare che il Presidente della Repubblica Mauricio Macri non ha mai fatto mistero del suo cuore devoto al Boca, mentre in precedenza Kirchner aveva confessato il suo amore per il Racing Avellaneda). Papa Francesco e il San Lorenzo de Almagro è un’altra di quelle storielle da raccontare: la tessera 88235 riporta la dicitura “Jorge Mario Bergoglio” e fornisce una tesi da smontare. Perché è vero che in Argentina l’88% della popolazione è cattolica, ma è altrettanto lampante che il legame coi propri colori sia qualcosa di sacro. A ledere la potenza di una messa c’è infatti il rituale della partita: non è un caso che, all’interno dell’88%, il 35% abbia spiegato di non recarsi quasi mai in chiesa. Troppo forte l’attrazione che lega agli stadi, quella pasión futbolista dogmatica e spesso procrastinatrice. La religione, in casi come questo, finisce per occupare il secondo gradino del podio.

La poca organizzazione fa da specchio ad un movimento povero in termini monetari ma ricchissimo di seguito: il Boca Juniors detiene lo scettro di capoclasse in Primera División grazie alle alchimie di un Guillermo Barros Schelotto che qualche intrepido ricorderà al Palermo nel gennaio 2016. Trascinati, fino al brutto infortunio dello scorso fine settimana, dalla prolificità di Dario “El Pipa” Benedetto, 6 reti in 7 giornate, gli Xeneises volano sulle ali di uno straripante Cristian Pavón (21 anni, uno in più di chi vi scrive) e danzano sulle pennellate di Fernando “El Pintita” Gago e le giocate dell’ex Peñarol Nahitan Nández. Nel quartiere di Baires dove alla fine del 1800 si radunò una fitta rappresentanza proveniente dalla Liguria, la speranza è di continuare a a guardare tutti dall’alto: qui non si scherza mica, perché la mitad más uno del paese sostiene i colori azul y oro.

Segue il San Lorenzo, che a discapito della preferenza di Papa Francesco dovrà fare probabilmente miracoli per restar dov’è: rispetto alla rosa che nel dicembre 2014 contese il Mondiale per Club FIFA contro il Real Madrid di Ancelotti, quello post Decima per intenderci, pare che sia passato un uragano. Yepes, Villalba, Buffarini, Cauteruccio, l’ex Catania Barrientos, Kannemann, Ortigoza e Más hanno tutti detto addio per un motivo o per l’altro: oggi perlomeno Juan Verzeri può contare sull’esperienza in difesa (dove l’ex viola Gonzalo Rodríguez e l’ex Boca Matías Caruzzo fanno 66 anni in due) e su una schiera di ex Genoa a centrocampo. Se Franco Mussis seppe far male nella stagione in cui il Grifone toccò l’Europa League (2014-15, bastarono sei mesi per rispedirlo a Copenhagen), Fernando Belluschi capitò semplicemente nell’annus horribilis in cui tutto va male e non c’è modo per invertire la rotta (correva l’anno 2012). A completare i volti noti, l’ex Inter e Chievo Rubén Botta a supporto della prima punta Nicolás Blandi, uno che tentò l’esperienza europea in Francia ma restò provato a tal punto da tornarsene il prima possibile dall’altra parte dell’oceano.

Il calcio argentino, insomma, è questo e altro. E’ il paese in cui gli ormai 38enni Daniel Montenegro e Pablo Guiñazú si sono riciclati centrocampisti, abbassando il loro raggio d’azione per giocare qualche anno in più. Siamo nel pieno della riserva dorada per meteore del nostro calcio: scovarli è un esercizio di memoria che richiede studio e attenzione. Ma se ricordate alcuni tra i seguenti, allora valutate la vostra preparazione in decimi: Nicolás Domingo? Carlos Matheu? Juan Sánchez Miño? Arévalo Ríos? Adrián Calello? Ivan Pillud? Gastón Silva? Emanuel Gigliotti? Sebastián Gorga? Sebastián Ribas?

Scherzi a parte, l’Argentina è molto altro. E’ la fonte della giovinezza per molti (Cristian Campestrini è un classe 1980, come Juan Mercier, Wálter Erviti e José Sand), pozzo dal quale trarre costante energia per continuare a giocare incuranti del passare del tempo. A queste latitudini l’orologio s’è fermato in tempo per permettere ancora a noi di godere delle spallate con cui El Tanque Germán Denis sa farsi valere, o ancora le reti di un Lisandro López che aspira a recepire il testimone da Diego Milito al Racing Avellaneda. Qui gioca Jonás Gutiérrez (Independiente), che dopo aver subito l’asportazione di un cancro ai testicoli era tornato in campo segnando il gol decisivo al St James Park: ma il Newcastle non lo volle più, tanto che si finì in tribunale e la madre del giocatore rivelò di aver pensato al suicidio per denunciare il trattamento che la società inglese aveva riservato al suo numero 18. Oggi ristabilitosi, sia dallo spavento che dalla beffa, dopo due parentesi al Depor in Spagna e al Defensa y Justicia Jonas ha ancora voglia di correre su un campo da calcio.

A La Plata il portiere titolare è Mariano Andújar e avanti si punta sulla garra di Mariano Pavone: i due avrebbero potuto essere compagni di squadra già al Catania, perché l’ex puntero betico nel 2010 era stato acquistato dai rosso-azzurri sotto insistenza di Pietro Lo Monaco, uno che successivamente lavorerà al Genoa provando a portare in Italia Juan Manuel Martínez: non ci riuscì, e fu forse anche per la mancata chiusura dell’affare che decise di rassegnare le proprie irrevocabili dimissioni dopo solo due mesi di lavoro in Liguria. Pure Leonel Galeano fu vicino all’approdo in Sicilia, mentre ora è al Godoy Cruz. Il Vélez Sarsfield si affida in attacco a Gonzalo Bergessio e a Jonathan “El Churry” Cristaldo, perno offensivo di quel Bologna che poi retrocedette dopo aver lasciato partire Diamanti nel gennaio 2014. E che dire, in fine, di un Banfield che punta molte sue fiches su due ex Palermo (Mauricio Sperduti e Nicolás Bertolo, oltre a loro l’ex Napoli Jesús Dátolo) e sugli ex Boca Pablo Mouche e Dario Cvitanich?

BRASILE 

Nelle zone più povere dell’America Latina, il calcio ha progressivamente assunto la funzione di compensare la sfortuna dovuta al trovarsi a respirare una certa aria. In altre parole, correre con un pallone tra i piedi rappresenta l’unica forma di rivalsa sociale che spesso traspare nelle bellissime storie di fama che ogni tanto vengono proposte o amplificate dalla stampa. Certo, capita anche in altre zone del globo, ma l’immagine di un bambino intento a palleggiare nelle favelas, tra droga, criminalità dilagante e problemi sociali, resta quella che certamente conferisce maggior impatto alla vista.

Questo perché nel paese del futebol bailado c’è la stretta convinzione che il pallone sia assimilabile alla samba per capacità di erigersi ad ambasciatore di una determinata terra. O futebol é mais que um jogo, é arte. Così dicono tra gli sconfinati ammassi di case a Rio e dintorni, dove le spiagge offrono turismo a milioni di turisti e il Mondiale del 2014 idem con patate. Semmai, però, il Mineiraço ha avuto l’effetto di rinnovare nella mente del popolo carioca la vecchia piaga del 1950 a 450 km circa da Belo Horizonte. Il 7-1 rifilato dalla Germania è ancora nella mente di milioni di brasiliani, increduli ed inermi testimoni di una delle disfatte peggiori, per portata e significato, dell’intera storia del calcio.

Il Maracanà resta un monumento al calcio, che ultimamente però ottiene l’effetto opposto di quello che Mario Filho avrebbe voluto. Il giornalista al quale è stato dedicato l’impianto si sarebbe battuto per prezzi ben più accessibili, ma visto che i recenti lavori di restauro hanno trasformato un tempio in un’elitaria chiesetta che pochi possono permettersi di profanare, il discorso assume una piega diversa. Siamo in Brasile, le contestazioni a Dilma Roussef vertevano per l’appunto sull’eccessiva cifra spesa per organizzare i Mondiali e il crollo della Seleçao di Felipão ha solo acuito un male già dilagante nel 2013: la situazione era surreale, mentre gli stadi ospitavano Neymar e la Spagna, l’Italia e l’Uruguay, fuori c’erano migliaia di manifestanti che si scontravano più o meno violentemente con le forze di polizia. Per fortuna il calcio resta sport popolare, almeno nelle sue accezioni più pure: vedere bambini tentare di emulare gli idoli di casa, Neymar su tutti, non ha prezzo. Ed è una delle poche cose che, in linea di massima, il denaro non può togliere.

Nel Brasileirão comanda il Corinthians di Guilherme Arana: la squadra di Carille conta anche sui gol del turco Colin Karim-Richards (e dello sciagurato , riserva di Fred tre anni fa e oggi secondo miglior marcatore del torneo con 15 realizzazioni). A centrocampo, il reparto sulla carta più fragilino, regna la classe del 34enne Jádson, con un passato allo Shakhtar. Tecnicamente, peraltro, lo scettro di miglior team spetterebbe al Palmeiras oggi secondo, per via di un asse centrale di lusso (PrassMinaLuanEdú DracenaArouca-Bruno Henrique, ex Palermo) rafforzato dalla contemporanea presenza in rosa di un mastino qual è Felipe Melo. Davanti il venezuelano Javi Guerra impartisce lezioni di classe, Michel Bastos rispolvera le gesta europee e Miguel Borja segna a raffica. Doppietta per lui nell’ultimo turno, contro il Cruzeiro, quando l’ex Levante Wanderson non era in campo e sulla sinistra agiva capitan Dudu.

A Porto Alegre, il Grêmio riscuote ancora consensi: Marcelo Grohe blinda i pali, l’argentino Kannemann la difesa, l’ecuadoregno Arroyo e il paraguayano Lucas Barrios, ex Dortmund, pensano ai gol. Con un minimo di carattere in più si può sognare, visto che le big stanno dietro: il Cruzeiro di Dedé dipende dal duo Thiago Neves-Rafael Sóbis, con la variabile impazzita Georgian De Arrascaeta pronta ad esplodere da un momento all’altro.

Da quando ha perso Neymar, il Santos, oggi quarto, è in costante fase calante. Vuoi per la contemporanea partenza di Zé Eduardo, ieri fenomeno al Genoa e oggi meteora alla Figueirense, in Serie B, oggi l’attacco bianconero è retto da giocatori che nel nostro paese hanno combinato ben poco: andate a chiedere al Milan di Ricardo Oliveira, o al Cagliari di Thiago Ribeiro, per conferma. L’ex Villarreal Nilmar completa il trio, pur se riserva per via della titolarità attribuita al numero 10 Lucas Lima: l’allenatore infine è Elano (proprio l’ex Shakhtar e Manchester City, tornato dov’era uscito dalle giovanili).

Non sta meglio il Botafogo di capitan Jefferson, il cui 4-3-1-2 dipende troppo sule gracili spalle del 26enne João Paulo. Tralasciamo poi il Flamengo. Il Mengão, mais querido do Brasil, possiede uno sconfinato talento che fatica a tradursi in risultati. L’ex ct ecuadoregno Reinaldo Rueda ha a disposizione il pararigori Diego Alves, ex Valencia, l’eterno Juan in difesa, l’ex juventino Diego insieme all’ex laziale Ederson a centrocampo, Paolo El Barbaro Guerrero davanti. Il brodo è allungato dalle sgroppate di Geuvânio, dal talento di un Darío Conca emigrato dalla Cina frettolosamente accettata, dall’ex Besiktas Rhodolfo. Il Vasco da Gama raccoglie varie curiose storie: c’è il terzino Breno, che scottò 3 anni e 9 mesi di carcere per aver appiccato l’incendio nella sua casa di Monaco di Baviera, c’è l’ex Hellas Verona Rafael Marques, c’è l’ex prodigio del Porto Kelvin, c’è il colombiano Andrés Escobar che porta il nome del difensore assassinato nel 1994 a Medellín.

A completare il quadro sono tanti piccoli frammenti di un puzzle variegato, come ad esempio l’Atlético Paranaense del terzino Jonathan, dell’eterno Lucho González e del sempreverde Eduardo, quel mezzo croato visto allo Shakhtar. Ci sono Robinho, Fred e Rafael Moura all’Atlético Mineiro di un Valdivia che è non è cileno ma brasiliano, c’è il  São Paulo con Lucas Pratto e Wellington Nem (ma pure Hernanes, Christian “AladinoCueva e O Mago Maicosuel), c’è quello che resta della drammaticamente scomparsa Associação Chapecoense de Futebol. Tutti noi siamo la Chape, portiamo  nel cuore le immagini di quell’aereo crollato e non riusciamo a capacitarci pienamente di quanto accaduto. E c’è Alan Ruschel, tra i pochi sopravvissuti al 29 novembre 2016.

Il capocannoniere del Brasileirão è quattordicesimo in classifica, gioca nel Fluminense insieme a Romarinho e si chiama Henrique Dourado. Cavalieri, l’ex Napoli Henrique e l’ex Roma Marquinho completano una breve panoramica delle qualità a disposizione di Abel Braga. L’ex genoano Anselmo (Recife), il 30enne tedesco Alexander Baumjohann (Coritiba, con l’ex viola Keirrison) e l’ex Genoa e Bologna Roger Carvalho (ultimo in classifica, il suo Atlético Goianense) completano questa veloce carrellata.

COLOMBIA

All’Haciénda Nápoles, quartier generale del drug lord Pablo Escobar, la routine era pressoché la stessa: progettazione attentati, pianificazione di esecuzioni e/o sequestri, continua attenzione nel far sì che il cartello di Medellín dominasse l’intera catena produttiva e distributiva della cocaina all’interno della Colombia. Al controllo delle piantagioni si affiancava poi una particolare preferenza per l’Atlético Nacional: è il periodo ormai noto come narcofùtbol, visto che il calcio è in fin dei conti un’espressione sociale e come tutti gli oggetti di studio della sociologia va a mischiare le sue trame gli ordinamenti paradigmatici presenti sul territorio in cui attecchisce.

Stando a quanto scriveva un anno fa Crampi Sportivi, il fatto che i narcos fatturassero robe come 60 milioni di euro al giorno fu la causa di una pioggia battente di denaro sul movimento calcistico colombiano. Non solo Medellín, ma pure Bogotá e Cali: l’effetto di questo calcio drogato è riconducibile alle tre finali di Libertadores che a Cali videro consecutivamente tra 1985 e 1987. Era la generazione di Higuita, militante nelle fila bianco-verdi a Medellín quando si parlava degli homemade Puros Criollos. Sarebbe utopico pensare di rivivere periodi tali, sicché il calcio era visto come un’ottima lavatrice nella quale ripulire le banconote ancora intrise di illecito.

Il movimento che oggi ha raccolto il testimone dal narcofùtbol è dunque povero, ma cerca di porre rimedio alla scarsità di denaro con la passione e il tifo unico di un paese che ama il calcio. Scontato, ma scordatevi quel velo di snobismo elitario che l’Europa ha assunto progressivamente nel corso degli ultimi anni: la Liga Águila I è un concentrato di calore ed emozioni.

La formula con la quale l’Atlético Nacional si è conquistato il potere in patria è semplice: lo spagnolo Gorka Elustondo comanda la difesa, ma al suo fianco non ha più Laporte dell’Athletic Bilbao bensì un corazziere qual è il 34enne capitano Alexis Henríquez. In mezzo al campo ci si affida ad Edwin Valencia, davanti si vola sulle ali di Andrés Rentería e si volteggia sulle geometrie del 10 Macnelly Torres. Lo spagnolo Juanma Lillo vince così, con quattro punti di vantaggio sull’Independiente del 59enne Juan José Peláez, la cui stella è quel Juan Quintero che a Pescara (meno ad Oporto…) ricordano con affetto.

MESSICO

E’ il meno sudamericano dei sopracitati paesi, e non solo per l’ovvietà che fisicamente si trovi un bel po’ più a nord, ma perché ha saputo ottimamente mischiare le peculiarità del folle fùtbol latino alla vendibilità nordamericana di stampo USA. Il prodotto di un’attività simile è unico nel suo genere: la Liga MX è il campionato più seguito fuori dall’Europa, mentre estendendo la classifica al mondo la Primera Division è quarta in classifica (davanti alla Ligue 1, per intenderci!).

Il Messico è un po’ quell’oasi felice dove tutto va bene: la gente frequenta gli stadi (26mila presenze in media a partita, meglio di Argentina e Brasile), in giro c’è talento e non si parla solo di gente che è solita apparire con la maglia de El Tri. Nel 2012 vi fu una riforma atta a sradicare ogni tipo di calcio che non fosse funzionale al nuovo progetto: Apertura e Clausura, scelta anacronistica in un mondo che preferisce un campionato unico, ma terribilmente emozionante per via del dilatare in due differenti tornei lo stesso anno solare.

Il tasso tecnico è economico, il pubblico è agevolato dai costi abbordabili (costo medio di 2 dollari a biglietto: non sorprende che si tocchi ben l’80% del riempimento stadi) e le tv estere hanno cominciato ad interessarsi al calcio di queste parti. A Televisa e Tv Azteca si sono aggiunti i colossi ESPN, Sky e Fox Sports, portando sull’Azteca e dintorni ingenti cifre derivanti dai diritti.

Sul campo comanda il Monterrey, tra i pali del quale figura il 33enne Juan Pablo Carrizo (coetaneo di capitan José María Basanta). In difesa agisce l’ex Milan Leonel Vangioni, il paraguaiano Celso Ortiz e il colombiano l’ex Parma Dorlan Pabón si alternano tra centrocampo e trequarti: il secondo fu il sostituto deludente di Seba Giovinco, qui in Messico però regala spettacolo. Tra gli Albiazules figurano pure Rogelio Funes Mori, argentino e fratello di Ramiro, il 30enne colombiano Avilés Hurtado: già 5 reti in 8 partite per lui. Segue in seconda posizione il Tigres UANL, club dalla ricetta semplice: l’argentino Nahuel Guzmán tra i pali, difesa retta dall’ex Siviglia e ‘Gladbach Timothée Kolodziejczak, attacco micidiale. La velocità la mettono Eduardo “TurbomanVargas e il messicano Jürgen Damm (ma col cognome tedesco, ereditato dal nonno paterno), la potenza è roba del duo Enner Valencia e André-Pierre Gignac, che non ha bisogno di presentazioni. A tutto questo, aggiungete l’estro del 27enne Javier Aquino e avrete una miscela potenzialmente esplosiva. Anche implosiva però, visto che i punti di distacco sulla prima sono 8.

C’è poi il Club Léon di Guillermo Burdisso (fratello minore de El Léon, Nicolás), dell’ex laziale Diego Novaretti e dell’ex romanista  Iván Piris. Il colombiano Alexander Mejía regge un centrocampo che poggia sul talento sconfinato di cui il numero 10 Luis Montes è provvisto: il 31enne messicano va a supportare un reparto offensivo che conta sulle reti del capitano Mauro Boselli, che veste la 17 e in 9 gare ha messo a segno 5 reti e un assist. Decisivo come nel derby di Genova, quanto tinteggiò di rossoblù la Lanterna. Era la sera dell’8 maggio 2011, antologia e leggenda.

Segue il Club Necaxa dell’ex River Plate Marcelo Barovero a proteggere la porta, davanti alla difesa retta da Igor Lichnovsky, cileno dalla storia curiosa. Suo padre ha il passaporto polacco, suo nonno ha origini slovacche e lui ha cominciato la carriera da attaccante. Poi è stato progressivamente spostato in difesa, dove le sue performances gli sono valse il soprannome di Pique Azul per la somiglianza con il difensore del Barcellona. Il centrocampo è dominato dai due cileni Manuel Iturra e Matías Fernández, rispettivamente ex Udinese e Fiorentina/Milan, l’attacco poggia sulle spalle di un Facundo Pereyra che è arrivato qui dal PAOK ma gioca col contagocce.

Gioca ancora Rafael Márquez,  e a 38 anni suonati (trattasi di un classe 1979!) impartisce lezioni di difesa ai compagni dell’Atlas Guadalajara, squadra dell’inglese Ravel Morrison (uno che la parte biancoceleste di Roma ricorderà…) e dell’ex Pescara Milton Caraglio, già obiettivo di mercato del Catania e poi sbarcato in Italia nel gennaio 2013. Al Monarcas Morelia troviamo Andy Polo, sogno di mercato del Genoa e con un poco glorioso passato all’Inter nel 2014, mentre il Deportivo Toluca offre la titolarità all’ex Palermo Santiago García che nel frattempo è passato pure per il Werder Brema: l’attacco dei Diablos Rojos è composto da tre moschettieri quali Pablo Barrientos, Fernando Uribe e Gabriel Hauche. A Catania il primo ha fatto bene, alter ego del Papu Gomez, mentre gli ultimi due non sono riusciti a mostrar le loro qualità al Chievo.

Al Cruz Azul gioca José de Jesús Corona, 36enne storico volto della nazionale messicana e leader al pari di Rafa Márquez. Davanti a lui ecco il cileno Enzo Roco e l’argentino Julián Velázquez, che nel luglio 2012 fu venduto al Genoa ma mai giocherà coi rossoblù per via di problemi col Transfer Matching System. Pagato 3,5 milioni all’Independiente, club che l’aveva formato nelle giovanili, è stato al centro di un intrigo internazionale poi disciplinato dalla Fifa. Ma fanno parte della rosa anche il cileno Francisco Silva, “El Gato” che siglò il rigore decisivo nella finale di Copa América Centenario al MetLife Stadium, e l’ex Palermo (2013) Alejandro Faurlín. La Máquina Cementera dispone poi di un reparto offensivo impreziosito dalle sgroppate dell’ex Alavés Edgar Méndez e sulla fisicità dell’argentino Martin Cauteruccio, che come tutti i bimber argentini di un certo tipo era stato sondato dal Catania di Lo Monaco.

Il Club América punta sull’ormai 33enne Oribe Peralta, capace di abbattere con una doppietta la Seleçao brasiliana nella finale calcistica alle Olimpiadi di Londra 2012. La medaglia d’oro vinta da Luis Tena fu per gran parte merito suo, non serve aggiungere altro. Chiudono la nostra panoramica il Lobos del peruviano Luis Advíncula, il Club Tijuana di Juan Iturbe (ma pure Matías Aguirregaray, Miler Bolaños e Gustavo Bou) e il Deportivo Guadalajara del 37enne Carlos Salcido e dell’ex Olympiakos Alan Pulido. Meritano una citazione il Tiburones Rojo di Jefferson Murillo (nel marzo 2016 si allenò in prova col Genoa ma non fu tesserato) e il Pumas, ultimo in classifica ma col cileno Marcelo Díaz in campo accanto all’ex Palermo Mauro Formica, all’ex West Ham Pablo Barrera e all’ex Frosinone Nicolás Castillo, vincitore della Copa Centenario 2016. Ultima menzione per il Pachuca: oggi il CF è ben lontano da quello che nel 2010 lottò contro l’Inter nella Coppa del mondo per club: non ci sono più i vari Carlos Alberto Peña, Luis Montes, Édgar Benítez, Paul Aguilar o Darío Cvitanich. Resta però una formazione che non merita il quindicesimo posto in classifica, con altrettanti punti: nel parco giocatori figurano nomi altisonanti come Keisuke Honda e Angelo Sagal, cileno e autore di una clamorosa chance buttata alle ortiche nella finale di Confederations Cup 2017, ma pure Edson Puch, Franco Jara e l’uruguagio Urreta (nome completo Jonathan Matías Urretaviscaya da Luz, ex Benfica).

Superliga Boca Juniors

Tra Argentina e Brasile, Colombia e Messico, termina qui il nostro viaggio. Carrellata spiccia di pillole sudamericane, breve rassegna di quel che si può trovare per i giri tra Baires e Rio, tra Bogotà e Città del Messico. A voi ora il possibile compito di appassionarvi a queste latitudini, dove il Fútbol è quello con la lettera maiuscola ed è nel frattempo cresciuto su un piano parallelo rispetto a come si è sviluppato nei territori europei nostrani. Tanta Serie A, passata di fretta e poi tornatasene frettolosamente in patria bollata con gli appellativi di bidoni e l’etichetta di perennemente inadatti al Belpaese.

Eppure, se c’è qualcosa che l’Europa non può non voler copiare dal calcio latino, si tratta proprio di quell’inestinguibile passione che assume le connotazioni di cui sopra. Recentemente s’è giocato il Superclásico, sfida fratricida tra due ex compaesani usciti dalla stessa costola di Baires, La Boca. Hanno vinto gli xeneises, attirando su di sé ancora una volta il titolo di padroni del calcio argentino: nella città che al suo interno contiene contemporaneamente La Horqueta e di Fuerte Apache, i quartieri rispettivamente ricco e povero, ci si aspetta questo e altro. Perché il calcio è puro, è arte, è mistica. E’ magia, è nostalgia, è espressione di una fortissima esigenza sociologica. E’ un fenomeno globale, che pure da queste parti non sarebbe stato romanzato meglio. E chissà se, su questo, il sopracitato Osvaldo Soriano concorda con me.