Pablo Emilio Escobar Gaviria non ha mai sofferto di quella solitudine che consuma gli uomini di potere. Non è un’affermazione così scontata se consideriamo che tanto più grande è l’influenza che si esercita sulle persone quanto maggiore è la resistenza a sviluppare e conservare empatia. Il denaro snatura l’autenticità dei rapporti: li nutre nel numero ma li degrada nella qualità. Non sai mai se la gente ti sta attorno per amore, ammirazione, semplice piacere o se tutto è ridotto ad una questione di convenienza.
L’ascesa mediatica di Escobar, il più famoso narcotrafficante della storia, procedeva su due binari opposti ma diretti alla stessa fermata. Da un lato la celebre strategia del plata o plomo, perlopiù applicata ai negozi, dall’altro un’oculata operazione di restyling dell’immagine sociale, fatta di donazioni e opere comunitarie, che agli occhi dell’opinione pubblica ne redimeva ogni peccato. El Robin Hood paisa, un uomo del popolo, venuto dal popolo e non dimentico delle proprie origini, ed El Patrón, spietato leader del cartello di Medellín, sono due immagini contrastanti ma complementari che restituiscono fedelmente l’unicità di un uomo che, pur devolvendo il suo ingegno al male, ha plasmato la fisionomia identitaria del proprio paese.
Le scorie che il narcotraffico ha seminato intorno a sé nella Colombia degli anni ’80 macchiano la storia del fútbol come farebbe la coca quand’è ancora allo stato colloso. Una contaminazione che parte dalle fondamenta, così intensa da non riuscire più a sanarla, figurarsi trovarne l’inizio e la fine. Quando i soldi dei cartelli invasero il calcio favorendo una nuova primavera per un movimento in declino, un po’ tutti si resero conto che, una volta raffinata, l’aspetto della cocaina è decisamente più invitante di una fetida brodaglia primordiale.
Uno dei primi narcotrafficanti a riciclare i proventi della droga nel calcio fu José Gonzalo Rodríguez Gacha, socio fondatore del cartello di Medellín e compagno di merende di Pablo Escobar. Una testa calda, poche parole e tanti fatti, che spesso coincidevano con un proiettile conficcato nel lobo frontale. La mano del Mexicano, così conosciuto tra i narcos per la passione mai nascosta per la cultura messicana, si posò sul Millonarios di Bogotà, squadra della massima serie colombiana caduta nel dimenticatoio dopo i fasti degli anni ’70. Il club della capitale risorse rapidamente sotto l’impulso di Gacha fino a conquistare due titoli consecutivi tra il 1987-88, trofei che la recente proprietà di Felipe Gaitán ha provato a cancellare dal palmarès del club per sradicare ogni collegamento con un passato mafioso. Ci è voluto quasi un quarto di secolo prima che il Millonarios tornasse a vincere in Colombia, questa volta in maniera “pulita”: è successo nel 2012, a 63 anni di distanza da quando Alfredo di Stefano vinse il primo scudetto della storia con il blu e il bianco dei Milos.
Un simile percorso di redenzione è toccato all’Atlético Nacional de Medellín, la squadra di calcio della capitale della droga beneficiata di riflesso dall’impero di Escobar. Nessun incarico diretto a differenza di quanto avvenne tra Gacha e il Millonarios, ma una costante inflazione di capitale illecito a perpetrare il paradigma del narcofutbol. All’apice del suo dominio Escobar controllava circa l’80% del traffico planetario di cocaina per un patrimonio stimato intorno ai 30 miliardi di dollari. Il calcio costituiva una delle tante strade per reimmettere in circolo il danaro, lavarlo dalla cocaina, e riportarlo al legittimo proprietario, ma anche un modo per tener vivo il legame con la gente delle comunas. Il realismo magico che avvolgeva la figura di Escobar passava proprio da una sorta di dottrina rivoluzionaria che mitigò i tratti del bandito fino a sfumarli nel ritratto di un eroe nazionale: Pablo fu l’artefice inconsapevole di un programma di rivalutazione del calcio colombiano sviluppato attraverso la costruzione di stadi, centri sportivi, campi di periferia. L’idea di fondo era quella dei Puros Criollos, un movimento affidato ai colombiani e per i colombiani che limitasse l’espatrio di giocatori autoctoni verso campionati più prestigiosi e l’immissione di calciatori stranieri in patria. La politica pagò presto ampi dividendi: l’Atlético de Medellín vinse nel 1989 la Coppa Libertadores, portando per la prima volta in Colombia il prestigioso trofeo sudamericano, con una squadra formata esclusivamente da Cafeteros. Tra questi anche René Higuita, Norberto Molina, Andrés Escobar, Luis Carlos Perea, Luis Fernando Herrera, John Tréllez, Leonel Álvarez, Gildardo Gómez e Albeiro Usuriaga, tutti giocatori che fecero tremare il Milan di Sacchi nella finale di Coppa Intercontinentale persa poi 1-0 ai tempi supplementari con un gol di Alberigo Evani. Tenete a mente un paio di nomi perché torneranno presto utili.
Storie di redenzione, dicevamo. L’Atlético de Medellín ha bissato il successo in Coppa Libertadores appena un anno fa, nel maggio 2016, ai danni degli ecuadoriani dell’Independiente del Valle, pareggiando per 1-1 allo Stadio Olímpico Atahualpa e vincendo per 1-0 all’Atanasio Girardot. Protagonista nei due incontri di semifinale contro il San Paolo è stato Miguel Ángel Borja Hernández, autore di 4 gol nella serie tra andata e ritorno. Facile rintracciare il filo di una nuova primavera di cui il pallone d’oro sudamericano è il simbolo: data di nascita 1993, l’anno della morte di Escobar. Il recente tentativo di marcare il distacco dal narcofutbol (i recenti successi di Atlético e Millonarios vengono mediaticamente collocati come manifesti di un calcio pulito) nasce dall’esigenza di lavare via dai campi di calcio il sangue copiosamente versato per mano dei cartelli.
Luis Carlo Galán era uno dei più fervidi politici della storia colombiana quando decise di candidarsi alle elezioni presidenziali del 1990. Le sue idee liberali e progressiste si scontravano apertamente con l’egemonia imposta dai narcos, tanto da causarne la morte durante un comizio elettorale il 18 agosto del 1989 a Soacha, nel dipartimento di Cundinamarca, per ordine del signore della droga Pablo Escobar. Il 1989 è stato l’anno dei Puros Criollos sul tetto del Sudamerica, ma anche quello della morte di centinaia di innocenti: giudici, giornalisti, forze dell’ordine e per la prima volta anche un arbitro, tale Álvaro Ortega, reo di aver annullato un gol nella sfida tra Independiente Medellín (l’altra squadra del dipartimento di Antioquia che godeva dei favori del Patrón) e l’América de Cali di Gilberto Rodríguez Orejuela, boss di un cartello rivale. Nove colpi di pistola, una corsa vana all’ospedale e una lapide a Barranquilla. Storia di ordinaria follia nella Medellín dello scorso secolo.
A finire nel mirino dei narcos fu anche Andrés Escobar, difensore dell’Atlético Nacional e pilastro della nazionale colombiana, trovato morto il 2 luglio 1994 nel parcheggio del bar Padua di Medellín. Andrés condivise con il re della droga non soltanto il cognome, ma anche il tragico epilogo. Fu assassinato poco dopo l’eliminazione della Colombia dai mondiali di Usa ’94 perché autore dell’autogol che estromise i Cafeteros dalla competizione. Quell’incidente in campo avrebbe generato ingenti perdite nel traffico di scommesse illecite gestite dai narcos. Il suo assassino, Humberto Muñoz Castro, affiliato al clan dei Gallòn, si vendicò urlando “gol” mentre una scarica di proiettili si abbatteva sul corpo esanime di Andrés.
La morte di Andrés Escobar si colloca in periodo caotico della storia colombiana: un limbo fatto di nuove speranze e di lotte al potere tra le famiglie intente a raccogliere l’eredità di Pablo. Il progressivo smantellamento dei cartelli fu la logica conseguenza, favorita da un lato da una fratricida frammentazione interna e dall’altro da pensanti interventi normativi che diedero una sferzata al narcotraffico. A farne le spese fu anche il cartello di Cali degli Orejuela, fortemente indebolito dalla cosiddetta lista Clinton, una misura restrittiva varata nel 1995 dal governo statunitense volta a bloccare l’utilizzo di di capitali illeciti provenienti dalla droga. Il club América de Cali dovette far fronte a due milioni di dollari di debiti dopo l’interruzione dei fondi, erogati dagli Orejuela, che nella precedente decade erano valsi tre finali di Coppa Libertadores e cinque titoli consecutivi in Colombia tra il 1982 e il 1986.
L’ingerenza degli Stati Uniti non fu vista di buon occhio durante il sanguinario dominio dei cartelli. Sotto la presidenza di César Gaviria, alla guida dello stato dal 1990 al 1994, il rapporto tra i due governi subì parecchie tensioni risolvendosi soltanto all’alba dell’anno seguente in un nitido intervento degli americani. Nella delicata questione politica del narcotraffico, l’intromissione de los gringos era mal tollerata sia dai cartelli (“Preferimos una tumba en Colombia a una cárcel en Estados Unidos” il motto degli Extraditables, la gilda di narcos restia a sottoporsi all’estradizione sul suolo americano) che dalle forze politiche colombiane, quest’ultime animate dalla volontà di non cedere a dinamiche esterne di potere. E fu proprio in questo buco nero di intenzioni che Pablo Escobar negoziò con Gaviria la reclusione nella Catedral, una prigione costruita con i proventi dei narcos, nella quale avrebbe scontato la sua pena una volta costituitosi, ottenendo in cambio l’abolizione dell’estradizione per reati associati al narcotraffico.
L’episodio, passato alla storia come una “Gran Mentira”, la “Grande Menzogna” (la Catedral più che un carcere si rivelò un modernissimo e confortevole centro operativo, il cui accesso era precluso alle forze militari), s’inteccia ancora una volta con il sentiero del narcofutbol. A far visita al Patrón durante la permanenza in carcere erano in tanti, ma il nome che fece più scalpore fu quello di René Higuita, portiere dell’Atlético de Medellín e pilastro della nazionale colombiana. Il campo da calcio annesso alla Catedral infatti ospitava spesso incontri tra i più rappresentativi giocatori in circolazione (anche Diego Armando Maradona ha raccontato di averne preso parte) e i banditi al soldo di Pablo. L’accostamento di un’icona come Higuita ai narcos si fece però più insistente di una semplice frequentazione in occasione del rapimento della figlia di Luis Carlos Molina Yepes: René agì da mediatore nella trattativa che ne portò al rilascio tacendo alle autorità il suo coinvolgimento nella vicenda. Morale della favola: reato di favoreggiamento al sequestro di persona e condanna a sei mesi di reclusione che gli costò l’esclusione dalla lista dei convocati per USA ’94.
E’ difficile dire con certezza se la progressiva ascesa del calcio colombiano sia stata una conseguenza diretta dei fasti del narcotraffico o, come più cautamente andrebbe interpretato, di una chimica ben riuscita tra casualità, predisposizione antropologica (la golden generation colombiana nel segno dei Puros Criollos sarebbe venuta fuori indipendentemente da Pablo Escobar?) e incidenza di fattori esterni. D’altro canto, negare che il cuoio di gran parte dei palloni tra Medellín, Cali e Bogotà non fosse misto a cocaina, sarebbe una bugia bella e buona.
Così, quando qualche vostro amico colto parafraserà Marx dicendo “Il calcio è l’oppio dei popoli”, potrete rispondere che per tanto tempo in Colombia si trattava più di un dato di fatto che di una semplice suggestione metafisica.