50 sfumature di Oranje. Tutti i colori di Edgar Davids

Lo sguardo che posiamo sul mondo è incessantemente condizionato dai colori che lo compongono. E la forza con la quale i colori restano impressi nel nostro cervello è tale da creare un reflusso costante tra percezione e reazione. I colori sono in grado di influire sul nostro umore, sulle nostre scelte, sulle nostre emozioni. A seconda della loro carica evocativa, riescono perfino a cristallizzarsi nella nostra memoria, riaccendendo attraverso un’impronta un ricordo dimenticato. Fin da piccoli ci insegnano a distinguere i colori, a sezionarli in apposite categorie, come se non esistesse quella continuità quasi irrisolvibile fatta di luci e di ombre che sconvolge lo sguardo. Spesso non siamo neanche in grado di dire i colori. Stanno lì, penetrano le sinapsi, ma non sono riducibili al linguaggio.

Quando nell’estate del 1999 Edgar Davids fu costretto ad una operazione agli occhi a causa di un glaucoma, la paura più invadente fu quella di dover formulare una corrispondenza alternativa tra dire e vedere. Sul letto di una clinica di Nantes, il rischio di perdere la vista, o di ridurne la portata, sopraggiungeva nel punto di massima ascesa, quando dopo una mediocre annata con il Milan, si stava consacrando come pedina essenziale della Juventus di Capello. Proprio di quella Juve che, al netto di pensanti interrogativi circa la metodologia e le forme del successo, avrebbe dominato lo scenario calcistico degli anni a venire. All’alba del nuovo millennio, Edgar iniziò a scendere in campo con degli istrionici occhiali protettivi, costruiti ad arte per preservare il patrimonio più grande per un essere umano.

Edgar Davids è stato tanti colori: il rosso della rabbia, viscerale e annichilente; Il blu dell’eleganza, condensata in una tecnica quasi inusuale per un giocatore predisposto alla rottura più che alla costruzione; il nero del fallimento nel suo sbarco in Italia; il bianco del successo, che lo ha incastonato negli annali della storia olandese e di quella bianconera.

Il colore che più risalta tra le infinite tonalità che affrescano il ritratto di Edgar Davids, è però l’arancione delle lenti attraverso le quali ha iniziato a vedere il mondo dopo l’operazione del 1999.

PARAMARIBO-AMSTERDAM, ANDATA E RITORNO

Edgar Steven Davids nasce il 13 marzo del 1973 a Paramaribo, capitale del Suriname. Al caldo umido della multietnica città equatoriale i suoi genitori preferiscono però le nuvole cerulee di Amsterdam. All’età di due anni, tracciando una rotta inversa rispetto a quella percorsa dai colonizzatori olandesi, Edgar sbarca nel vecchio continente. Questione di sopravvivenza più che di capriccio, i vicoli della capitale rappresentano fin da subito la migliore offerta formativa. Nel quartiere operaio di Nieuwendam, mentre il padre lavora come scaricatore di porto e la madre trova un impiego presso una ditta di pulizie, Edgar sviluppa un legame simbiotico con l’asfalto. Il calcio dei sobborghi, fatto di rigidi paradigmi morali ma anche di genuina creatività, è la vasca in cui iniziano a mescolarsi i primi colori. Ne assorbe l’irruenza e la crudeltà, si nutre dell’estro degli eccessi. Nello stesso modo in cui impara la legge del rispetto, definisce i fondamentali del palleggio e del dribbling. Tutt’altra cosa è il rigido inquadramento al quale è sottoposto nell’Ajax Academy, laboratorio di talenti che accoglie lui e l’amico Patrick Kluivert. Stesse origini surinamesi, stessa adolescenza spartita tra il grigio dell’asfalto e i verdi prati colmi di tulipani.

La dottrina del total voetbal è la chiave di una delicata transizione. La discrasia tra i codici della strada e quelli dell’Academy viene presto ricucita grazie al valore che la libertà assume nella filosofia calcistica dei Lancieri. Un pensiero di vita ancor prima che un modello di gioco, volto a ridefinire il concetto di libertà, inteso un po’ alla Gaber, come un’ordinata partecipazione globale. Edgar parte esterno ma viene presto spostato a centrocampo dove la rabbiosa attitudine al contrasto e le skills maturate per strada formano un accostamento sensibilmente funzionale. Corre, pressa, rincorrendo gli avversari per 90 minuti, sradica il pallone con ferocia, quasi che lo azzanni di volta in volta con un morso furibondo. Non a caso Louis Van Gaal gli affibbia il soprannome di Pitbull con cui lo presenta al mondo nell’esordio in Eredivise datato 6 settembre 1991, quando Edgar, appena diciottenne, inizia a preparare la tela sulla quale avrebbe dipinto la sua conturbante carriera.

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Con l’Ajax, sotto la guida del maestro Van Gaal, gli scaffali traboccano di trofei. Edgar mette nero su bianco la storia del calcio olandese, vincendo tre campionati di fila a cavallo tra il 1993 e il 1996, una coppa Uefa al suo primo anno tra i professionisti nel 1991 e la Coppa dei Campioni nel 1995 contro il Milan di Fabio Capello, l’allenatore che più di tutti ne avrebbe colto e rispettato l’essenza ribelle. E’ esponente di una nuova leva di talenti oranje, lui insieme ai gemelli De Boer, a Patrick Kluivert – autore della rete che fa salire i Lanceri sul tetto d’Europa – e Clarence Seedorf, questi ultimi anche loro figli delle foreste amazzoniche poco a  nord dell’Equatore. Ed è proprio in occasione della finale di Vienna che Davids esprime la connessione più viscerale con una terra mai dimenticata. Con la coppa tra le mani, protese verso il cielo, intona una melodia in sranan tongo, l’antico idioma del suo paese. Un legame forte, consacrato definitivamente, almeno da un punto di vista calcistico, soltanto quattordici anni più tardi, quando nel 2009 deciderà di vestire i colori della sua nazionale d’origine per tre partite amichevoli, conoscendo soltanto il dolce sapore della vittoria.

Sul calare della stagione 1995/96,dopo aver festeggiato il terzo titolo nazionale consecutivo, approda nuovamente in finale di Coppa dei Campioni. Davanti ancora un’italiana, la Juventus, ma l’epilogo questa volta non è dei più lieti. L’Ajax perde, Davids sbaglia pure un rigore. Evidentemente la pancia degli olandesi era fin troppo piena, e la decisione, quasi fisiologica, nella triste notte di Roma è quella di cercare altrove nuovi stimoli, destinazione Italia, per chiudere un cerchio beffardamente tratteggiato dal destino.

LIBERE FRONTIERE, NIKE APPROVED

Il calcio multiculturale ed esterofilo, per come lo conosciamo oggi, affonda le sue radici nella storica pronuncia della Corte di Giustizia Europea in merito al contenzioso tra il belga Jean-Marc Bosman e la sua squadra, la FRC Liegi. Giunto al termine del suo contratto Bosman si accorda con il Dunquerkue, formazione francese, ma l’assenza di un adeguato conguaglio economico fa saltare il trasferimento. Vessato dalla sua società d’appartenenza, con l’esclusione dalla rosa e una drastica riduzione dell’ingaggio, Bosman denuncia quella che di fatto è una restrizione al commercio – e una violazione dell’articolo 39 del Trattato di Roma che sancisce la libera circolazione dei lavoratori – facendosi portavoce di un’aspra battaglia legale. Nel dicembre del 1995 la sentenza della Corte di giustizia dà ragione a Bosman e stabilisce che tutti i calciatori professionisti aventi cittadinanza dell’Unione europea possono, alla scadenza del contratto, trasferirsi gratuitamente in un altro club comunitario. Un sistema pressoché integralista, fondato sull’ossequiosa tutela dei nazionalismi, viene scoperchiato generando un melting pot calcistico senza precedenti. Le barriere crollano, si aprono i confini, e Davids arriva a Milano, sponda rossonera, alla corte di Tabarez.

La prima e unica stagione al Milan è un vortice di amarezza. Il dazio non pagato alla frontiera viene saldato con una serie di prestazioni al di sotto delle aspettative. Davids gioca poco, tormentato da un infortunio a tibia e perone, e quando scende in campo appare la copia sbiadita del ruggente centrocampista plasmato nei polder del nord Europa. Il malumore a Milanello dilaga, si cerca in fretta un acquirente per monetizzare. L’offerta di nove miliardi delle vecchie lire presentata dalla Juve nel dicembre del 1997 appare subito congrua alla dirigenza rossonera. Edgar Davids lascia così Milano, in un trasferimento apparentemente senza rimpianti, ma che lo stesso Adriano Galliani qualche anno più tardi non esiterà a definire uno dei più grandi rimorsi della sua carriera.

I tratti iconografici di Edgar Davids si condensano tutti nella sua esperienza in bianconero. E’ a Torino che il nativo di Paramaribo si svela al mondo per quello che realmente è, sia sotto l’aspetto professionale che umano, e che entrambi i profili finiscono per combinarsi, producendo un ritratto capace di influenzare la cultura di massa. Nel 1999 le ansie generate dal glaucoma finiscono per trasformarsi in una delle sue più grandi fortune: dopo l’operazione di Nantes, Edgar si presenta in campo con quegli eccentrici occhiali protettivi, che da semplice strumento terapeutico acquisiscono ben presto uno status identitario autonomo. Come se godessero di vita propria, le lenti arancioni colorano il mondo di nuove sfumature, precedendo lo stesso Davids per potenza espressiva e comunicativa. Un marchio consacrato dalla Nike, con cui lo stesso Edgar girerà alcuni spot pubblicitari di successo, presentando la sua versione meno accessibile: diventerà uno dei maggiori promoter dello street football, sdoganando, tra tocchi di suola e palleggi da capogiro, l’immenso serbatoio di skills apprese tra i vicoli della sua Amsterdam.

Rivoluzione mediatica e rivoluzione in campo, dove Capello ci mette poco a restituirgli una collocazione tattica adeguata, ed Edgar lo ripaga dissotterrando il vigore perduto: torna a mordere nella mediana bianconera, proprio come aveva fatto con l’Ajax, affiancando alla consueta ferocia una vasta gamma di soluzioni di straordinaria eleganza e funzionalità.

I CANONI DI EDGAR

Veste per otto anni la maglia della Juventus, vincendo tre scudetti, due Supercoppe e una Coppa Italia. Sul fronte europeo però le delusioni sono tante, la più cocente contro il Milan nel 2003: i rossoneri vincono la finale di Champions e si prendono una grande rivincita nei confronti di Davids, mettendo un punto esclamativo su un rapporto indigesto, lacerato dal rancore e dalle delusione. Nel corso della sua esperienza in bianconero, la rivalità con la società di via Turati resterà una costante invariabile. Durante un match del Trofeo Tim nell’estate del 2002, accende una rissa in seguito ad un duro contrasto di gioco. In tanti provano a fermarlo, ma Edgar si dimena con tutta la forza che ha in corpo non lesinando colpi di rara violenza. L’arbitro è costretto a cacciarlo dopo appena quattro minuti, mentre Cosmin Contra, bersaglio dei ganci del surinamese, lo apostroferà nel post-gara come un “violento che serba rancore”.

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Il rapporto con gli arbitri non sarà mai particolarmente idilliaco, come dimostrano le quattro espulsioni accumulate in Champions League, record tutt’ora imbattuto, eguagliato soltanto in tempi recenti da Zlatan Ibrahimovic. La cattiveria mostrata in campo sembra quasi la più autentica riproposizione del mantra, preso in prestito dallo street basketball d’Oltreoceano, “no blood, no foul”, che riassume in sé un universo complicato, sorretto però da severe leggi morali. C’è chi lo ripugna e c’è chi lo apprezza, condividendone i valori più viscerali, come sottolineerà Matias Almeyda nella sua biografia Alma y vida: ‹‹Era l’avversario che mi piaceva di più. Lui mi dava una botta e io mi alzavo senza dire nulla. Io gli davo una botta e lui si alzava senza dire nulla. Lui a sinistra, io a destra: ci scontravamo sempre. Una guerra››. Ed è proprio questo ingente senso normativo che porta Edgar a coltivare un’inconsueta abitudine. Non è una leggenda la storia che narra delle partitelle clandestine giocate nei parcheggi, insieme all’amico e compagno Zinedine Zidane. ‹‹ E’ per loro che dobbiamo giocare. Sono queste le partite importanti››, così il Pitbull incitava Zizou, che con un cappello da pescatore provava a nascondere i tratti del viso, su quelle strade della periferia torinese che tanto ricordavano il calcio della working class di Nieuwendam.

I tanti successi in maglia bianconera sono in parte oscurati dalle indagini su un calcio che si rivela essere diverso da come appare. E’ il 2001 quando, nel pieno dell’inchiesta sulla somministrazione di medicinali per frode sportiva, gli viene riscontrata la positività al nadrolone, un forte steroide derivato dal testosterone, che gli costa la squalifica per cinque mesi da tutte le attività agonistiche. Edgar incassa il colpo, si rialza e riprende da dove aveva lasciato, archiviando un capitolo chiuso soltanto in sede processuale, ma ancora adesso profondamente sconvolgente da un punto di vista culturale e mediatico.

Il rapporto con la società bianconera si interrompe nel 2004, quando un ricambio generazionale si rende necessario, e l’arrivo di numerosi giovani di prospettiva compromette la sua titolarità. Edgar ha una personalità forte, pressoché incorruttibile, e non accetta di buon grado il compromesso. Se due anni prima avevano destato scalpore le parole nei confronti di Luciano Moggi – ‹‹Non vado al bar a prendere un caffè con Moggi, e mai ci andrò››- alcuni dissidi con l’allenatore Marcello Lippi generano un progressivo e inevitabile allontanamento. Davids si accasa per metà stagione al Barcellona dove riabbraccia l’amico di quartiere Kluivert, e si esprime su livelli notevoli. Poi torna in Italia, a Milano, questa volta sponda nerazzurra: quasi come se sotto al Duomo si nascondesse la sua kryptonite, Davids si paralizza, smette di mordere, e torna ad essere la versione ridimensionata di se stesso. Nel 2005 passa al Tottenham, senza però lasciare traccia. Sperimenta dunque un tuffo nel passato accordandosi con l’Ajax per la stagione 2007/08, dove in un finale di carriera che si accende ad intermittenza, si riscopre pedina essenziale nell’architettura tattica dei Lancieri: Ad Amsterdam sfiora la vittoria del campionato, guidando la squadra ad una feroce rimonta, e trionfa nella KNVB beker (la coppa d’Olanda), segnando il rigore decisivo nella serie finale contro l’AZ Alkmaar.

L’ORANJE TRA INGHILTERRA E OLANDA

L’ultima parentesi della sua vita professionale si apre e si chiude in Inghilterra, la terra che probabilmente, per assonanza di profili calcistici, risulta adatta più di ogni altra per contenerne la verve agonistica. L’unico rimpianto è quello di esserci arrivato troppo tardi, con un fisico logorato dai colpi di mille battaglie e con lo spirito appagato da decine di trofei. Non è un caso che l’approdo in Inghilterra si materializzi dopo quattro anni di inattività, durante i quali lo stesso Edgar aveva maturatola decisione di ritirarsi, quasi che l’esperienza Oltremanica sia qualcosa a sé stante, una specie di ricongiungimento esistenziale con il gioco inteso nella sua accezione più pura. Nel 2012 si lega al Barnet Fc, squadra di Conference Premier, la quinta categoria inglese, dopo che gli accordi con Leicester e Cristal Palace erano sfumati in un nulla di fatto. Nel Barnet – i cui colori sociali sono, guarda caso, l’arancione e il nero – Edgar ricopre il ruolo di giocatore-allenatore al fianco di Mark Robson portando sulla schiena un eccentrico numero uno. Dopo appena una stagione appende definitivamente le scarpe al chiodo, lamentandosi del trattamento che gli arbitri erano soliti riservargli: tre espulsioni in otto partite sono la goccia che fa traboccare il vaso, Edgar lascia il campo per svolgere a tempo pieno la professione di allenatore. Stare in panchina però, rinchiuso in una gabbia immaginaria in cui non gli è concesso mordere, non è evidentemente la sua strada. Il 19 gennaio 2014 si dimette dalla guida del Barnet, prodigandosi da lì in poi, in qualità di dirigente della Juventus, come esportatore del brand bianconero nel mondo.

Nel mezzo ci sarebbe anche una lunga e frastagliata militanza con la nazionale olandese, in un rimando con il colore arancione che costituisce una trama costante della sua carriera. Se le soddisfazioni sono tante, la casella di trofei segnerà però sempre lo zero. Il mondiale del 98’ è per Davids l’esperienza più trepidante, in particolar modo quel quarto di finale contro l’Argentina in cui Edgar corre in mondovisione per andare ad abbracciare, commosso e commovente, il gigante Van der Sar.  E pensare che a quei mondiali non avrebbe neanche dovuto partecipare a causa dei rapporti nefasti con l’allora allenatore della nazionale Guus Hiddink: due anni prima, nel 1996, il Pitbull era stato rispedito a casa nel bel mezzo degli europei inglesi, a causa di alcune dichiarazioni al vetriolo nei confronti del tecnico olandese, accusato di riservare trattamenti di favore nei confronti dei bianchi veterani della selezione Oranje. ‹‹Hiddink should stop sticking his head up other players’ arses›› (Hiddink dovrebbe smetterla di appiccicare la testa al culo degli altri calciatori), queste le parole rivolte alla stampa con cui Edgar intendeva denunciare un clima di inaccettabile discriminazione razziale verso i giovani della kabel, il gruppo degli atleti di origini surinamesi che comprendeva Reiziger, Seedorf, Bogarde, Kluivert e lo stesso Davids. Ad acuire lo scandalo, c’è una storica fotografia che ritrae i due gruppi, bianchi da un lato e neri dall’altro, divisi in due tavoli differenti durante un pranzo in ritiro. Non proprio il miglior antidoto alla xenofobia. Edgar nel 1998 si prende la sua rivincita, venendo inserito dalla FIFA nel Team of Tournament, il migliore undici dei mondiali di Francia. Riconoscimento quasi oscurato poi nel 2004, quando verrà menzionato da Pelé nella Fifa 100, la lista dei 125 migliori calciatori viventi, stilata in occasione del centenario della federazione.

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Ci sono sempre stati centrocampisti completi che sanno fare molte cose, reinventandosi a seconda delle necessità. Poi c’è stato Edgar Davids che ha saputo fare tutto e maledettamente bene, a dei ritmi quasi disumani. Se i primi spesso si arenano in un alone di mediocrità, Edgar ha ridefinito il gioco, con quelle trecce folte che fluttuavano senza logica, incapaci di adeguarsi alla rapidità del suo corpo. Il Pitubull sarà anche stato tanti colori, ma è stato ciascuno di essi in maniera autentica, quasi sacrale, nel suo modo di rifiutare ogni compromesso. E di essere fedele a se stesso sempre, nonostante le mille sfumature colte dai suoi occhi.