Se c’è una società al mondo che nell’ultimo decennio ha basato quasi interamente il proprio sostentamento sul sistema delle plusvalenze, viene difficile non pensare al FC Porto. I Dragoes sono maestri nell’arte dei ricavi derivanti da cessioni, ma dietro fatturati milionari si staglia una landa oscura, fatta di relazioni e personaggi che preferiscono restare nell’ombra.
L’inganno delle plusvalenze
Partiamo dalle basi: con il termine plusvalenza si indica l’insieme di ricavi generati dalla differenza tra il valore di un calciatore al momento della cessione e quello che risulta iscritto a bilancio dalla società che ne detiene il cartellino. Tanto maggiore è la forbice all’atto del trasferimento, tanto più quel plus si riconcilia con valenza: tradotto fuor di metafora, le casse si rimpinguano e tutte le parti in gioco sono un po’ più contente. Gli ultimi sette anni, in particolar modo, sono stati fonte di sorrisi abbondanti in terra lusitana: a partire dal 2010 si stima che il Porto abbia incassato oltre 300 milioni di euro dalla vendita dei propri giocatori.
Una lista interminabile di addii eccellenti, da Radamel Falcao e James Rodriguez (costati rispettivamente 5,43 e 7 milioni, e rivenduti a 40 e 45) fino ad arrivare ad Eliaquim Mangala e Jackson Martinez (pagati 6,75 e 8,89 milioni e ceduti a 30,5 e 37,1), che non ha comunque impedito al Porto di mettersi in bacheca nove trofei nella decade corrente, tra cui tre campionati e una Europa League. L’ultima plusvalenza monstre risponde al nome di André Silva, acquistato dal Milan qualche giorno fa per una cifra prossima ai 40 milioni di euro.
Proprio la cessione del centravanti è stata un’operazione decisiva per il bilancio del Porto, finito sotto osservazione della UEFA per quanto concerne il rispetto delle norme in materia di fair play finanziario, e obbligato a raggiungere il pareggio di bilancio entro la stagione 2020/21. E qui si apre una domanda più che legittima: come fa una società leader nel settore delle plusvalenze, con all’attivo centinaia di milioni generati dal traffico di giocatori, ad avere un saldo negativo tale da richiedere l’intervento esecutivo della commissione bilancio?
Un primo campanello d’allarme si era palesato al tramonto della stagione 2013/14 quando il rapporto tra entrate e uscite segnalava un rosso di 40 milioni, essenzialmente imputabile ad un’annata povera in termini di plusvalenze: nell’arco di dodici mesi si era passati dai 76,4 ai 23,9 milioni di introiti provenienti dalle cessioni dei giocatori, un dato che evidenziava, ora come allora, la profonda interdipendenza tra la società e il sistema alla base della sua stessa sopravvivenza.
Considerando che i ricavi da diritti televisivi non superano i 25-30 milioni di euro annui (somme simili in Italia spettano ad una squadra di media classifica) e che alla voce entrate ci sia ben poco altro da segnalare, il Porto in questi anni ha virato su una strategia di mercato aggressiva, fondata sull’acquisto dei più promettenti giocatori lusitani e di giovani sudamericani (brasiliani e argentini su tutti) alla prima esperienza in Europa, con l’obiettivo di rivenderli a cifre maggiorate ai top club europei. La delicata funzione di incubatrice di cui oggi il Porto stesso è prigioniero ha finito per rimpolpare anche le tasche di terze parti che speculano su queste frenetiche transazioni.
Come le TPO hanno cambiato il mercato
Il terreno melmoso cui abbiamo fatto riferimento nell’incipit del pezzo è tracciato dal raggio di azione delle cosiddette TPO (Third Party Ownership), meglio note in Italia con la vaporosa locuzione di fondi di investimento. Si tratta di società offshore con sede nei principali paradisi fiscali (e qui il confine etico ancor prima che legale andrebbe ricercato con la lente di ingrandimento) che operano prevalentemente nel mercato sudamericano tramite l’acquisto di quote dei diritti economici di giovani calciatori definiti “ad alto potenziale”.
Il meccanismo è semplice, favorito peraltro dallo stato di crisi in cui versano parecchie realtà sportive a sud dell’Equatore: gli investitori contribuiscono economicamente al trasferimento dei propri assistiti presso le squadre di prima divisione, spesso pagando direttamente parte degli stipendi; i calciatori in questione hanno la possibilità di mettersi in evidenza nell’attesa che qualche osservatore straniero si faccia avanti; le società in cui i giocatori vengono depositati hanno una chiara funzione espositiva (si assicurano in ogni caso le prestazioni di giocatori che, senza l’intervento delle TPO, non potrebbero permettersi), e monetizzano in un secondo momento sulla futura cessione dei propri tesserati. Un fitto tessuto di relazioni che sulla carta avvantaggia tutte le parti in gioco e in particolar modo gli stessi fondi di investimento, destinatari di cospicue revenues per ogni trasferimento dei propri associati.
La tendenza delle TPO, sempre più diffusa in passato, di rinnovare l’accordo di compartecipazione sui diritti economici dei giocatori anche con i nuovi acquirenti europei, invece di incassare sull’unghia i ricavi delle cessioni, ha portato all’estradizione di un modello tipicamente sudamericano sul nostro continente. Numerosi club spagnoli e portoghesi, tra cui lo stesso Porto, sono diventati i nuovi ingranaggi della catena di montaggio: i cosiddetti developers club, una sorta di anello di congiunzione tra le società sudamericane e le realtà di vertice del calcio continentale.
Vien da sé che le imponenti cifre generate dal sistema delle plusvalenze vadano ritoccate alla luce di quanto detto: per fare un esempio proprio in casa lusitana, la cessione di Mandala al Manchester City, valutata nell’ordine dei 40 milioni di euro, ha riempito le casse del Porto per un valore prossimo ai 20 milioni. La restante parte è finita nelle tasche del colosso maltese Doyen group, un fondo di private equality nato nel 2011, che negli ultimi anni si è reso parte attiva anche nei trasferimenti di Radamel Falcao dal Porto all’Atletico (finanziato per il 55% da Doyen) e poi da Madrid al Monaco (dei 60 milioni complessivi, 15 sono finiti direttamente nelle casse di Doyen, i restanti divisi tra fondo e società) e nel discusso passaggio di Neymar dal Santos al Barcellona (Doyen in questo caso ha intascato il 40% dei 57 milioni per la transazione). Per dare un’idea della disponibilità economica oltre che dell’espansione mediatica del fondo, nel 2015 Doyen sarebbe stato il principale consulente di Bee Taechaubol nella trattativa di acquisizione del Milan.
Secondo una stima elaborata dalla KPMG Asesores per conto della European Club Association, nel solo 2013 sarebbero stati circa 1100 i giocatori assorbiti dal domino delle TPO, per un valore complessivo dei fondi attestato intorno a 1,1 miliardi di euro, circa il 5,7% del valore del mercato globale. Il 36% del mercato portoghese sarebbe stato gestito da terzi investitori, con Porto, Benfica e Sporting Lisbona in testa tra i club coinvolti. Una tendenza che è cresciuta in questi anni anche in Spagna dove l’esplosione “miracolosa” di squadre come l’Atletico risiederebbe proprio nell’appoggio di fondi simili a Doyen, disposti a risanare le perdite di bilancio generate dai debiti con il sistema fiscale iberico dopo la crisi finanziaria di fine anni 2000.
Un sistema di galleggiamento osteggiato a lungo dalla UEFA e divenuto formalmente illegale a partire dal gennaio del 2015 quando la FIFA, di concerto con il Parlamento Europeo, ha annunciato il divieto per le TPO di operare in ambito internazionale, proibendo qualsiasi rapporto economico (dal finanziamento delle trattative all’acquisizione e rivendita dei diritti sportivi) tra tali fondi, i club e i tesserati del circuito. Una misura restrittiva simile era stata adottata nel 2008 dalla Premier League, la prima lega europea a bandire le TPO.
Anche se formalmente i fondi di investimento dovrebbero essere stati espunti dal mercato, le perplessità sull’attuale sistema sotterraneo di “consulenze” e sull’esistenza di operazioni finanziarie che aggirerebbero la normativa vigente sono più che legittime. Basti pensare allo scandalo Allardyce, scoppiato nel settembre del 2016 dopo che l’ex ct della nazionale inglese si sarebbe offerto di rivelare in cambio di 400mila sterline i trucchi per bypassare le norme in tema di mercato, a quelli che poi sono risultati essere dei giornalisti in incognito del Telegraph: nel mirino proprio una discussione su come rendere operative le Third Party Ownership e, cosa ancor più preoccupante, una rassicurazione sulla rimuneratività e ordinarietà della prassi ad opera di alcuni agenti FIFA.
La mano dell’uomo più potente del calcio
Tra questi, nel solco di un’inchiesta prodotta dal Guardian datata settembre 2014, ci sarebbe anche Jorge Mendes, il procuratore più famoso al mondo, nonché figura cardine nel processo di europeizzazione delle TPO. Al di là della poco chiara cessione di Bebé allo United nel 2010 (Mendes avrebbe acquistato tramite la GestiFute, associazione di sua proprietà, il 30% dei diritti economici sul giocatore, incassando insieme alle commissioni d’agente quasi la metà della somma del trasferimento), sono tanti i punti critici del suo operato contestati dal tabloid inglese. Primo fra tutti il conflitto d’interessi dato dal doppio ruolo di agente dei calciatori e di consulente per alcuni fondi offshore: negli ultimi anni Mendes avrebbe agito da reclutatore di giovani promesse per conto di TPO, favorendo il trasferimento in Europa di decine di calciatori da lui stesso rappresentati.
Ad infiammare il cortocircuito ci sarebbe anche un’altra mansione svolta nelle operazioni di trading, vale a dire quella di consigliere di mercato per numerosi club, dal Real Madrid (i due tesserati più iconici di Mendes sono proprio Cristiano Ronaldo e l’ex tecnico dei blancos José Mourinho) all’Atletico passando per il Manchester United e la triade dell’elite lusitana composta da Porto, Benfica e Sporting. Secondo la ricostruzione del Guardian, Mendes sarebbe l’uomo più potente del calcio, in grado di pilotare il mercato in ogni sua declinazione. Calciatori, società, procuratori, fondi d’investimento: un solo uomo, tre maschere differenti con tentacoli avvinghiati su tutte le parti in gioco.
Nonostante i divieti emessi dalla Fifa e il sospetto generale che le dinamiche d’acquisto delle TPO siano ancora in un modo o in un altro esistenti, è comunque innegabile che nel recente passato il sistema dei fondi sia risultato essenziale per il sostentamento di molti club. Un tessuto torbido, fatto di condizionamenti reciproci tra dirigenze e società dall’identità evanescente, che ha consentito a parecchie realtà con i conti in rosso di vivere al di sopra delle proprie possibilità. L’aspetto più inquietante resta una sottile linea rossa, che occhi non allenati chiamano destino, che avrebbe portato decine di giovani sognanti da una favela brasiliana al Santiago Bernabeu.