Il Rayo Vallecano è una cosa seria

Il Rayo Vallecano non è la terza squadra di Madrid, ma la prima di Vallecas. Basta guardare i graffiti sui muri, annusare lo stantio odore di tapas che rimbalza da un bar all’altro in fondo alla strada, che il senso di appartenenza, da Puente de Vallecas a Villa de Vallecas, diventa un paradigma insormontabile. Vallecas è un’isola, circondata dal mare di una capitale che non si cura dei suoi figli.

E’ difficile comprendere per chi guarda dall’esterno i motivi per cui uno nato e cresciuto a Madrid non dovrebbe fare il tifo o per i Galacticos o per i Colchoneros. In fin dei conti, a modo loro, Real e Atletico incarnano quell’archetipica lotta tra due mondi discordanti che è già completa di per sé. L’eleganza classista contrapposta alla garra rabbiosa, il simbolo del centrismo spagnolo e la sua nemesi, un’alternativa radical chic di resistenza. Eppure la terza via esiste se sei nato nel barrio di Vallecas, un distretto di trecentomila anime nella periferia meridionale di Madrid, che rema nella direzione opposta rispetto alla città che lo avvolge. La distanza è abissale. Vallecas è un quartiere del popolo, un agglomerato di fabbriche e di uomini che ci lavorano, che credono nella giustizia sociale lottando contro le sperequazioni, i soprusi, la corruzione del potere. Il Partito Popolare, il centro-destra di Mariano Rajoy che gode della maggioranza in Spagna, a Vallecas non è mai entrato. Lo spirito identitario permea ogni angolo del quartiere fino a mescolarsi con l’erba del Campo de Fútbol. Il Rayo, la “saetta”, diventa uno strumento di lotta. Andare allo stadio il rituale più semplice per gridare al mondo le proprie ragioni.

I valori di Vallecas

“Juntos Podemos” è il manifesto che campeggia su una delle quattro tribune sguarnita di posti a sedere. Ricorda a tutti un’ideologia ben precisa e fa il paio con le bandiere issate sulle case del distretto, un teschio bianco su sfondo nero. Si tratta dell’effige dei Bukaneros, un gruppo ultras di sinistra radicale nato nel 1992, fedele rimando alla battaglia navale che il barrio svolge ogni estate in onore della sua patrona, la Virgen del Carmen. E’ quasi surreale come il potere politico si sia infiltrato nelle fondamenta della cultura rayista diventandone un tutt’uno: lì dove gli ideali della curva sono gli stessi del suo popolo, si vive di Rayo come si vive di antifascismo, si fa il tifo come si disprezza l’omofobia, il razzismo, l’establishment. Non è un caso che Vallecas, nonostante i problemi di droga e un tasso di disoccupazione superiore al 20%, faccia dell’inclusione il suo mantra. Potrebbe essere un terreno fertile per i populismi, ma l’isteria collettiva lì non è di casa: il barrio accoglie e non divide.

Lo sa bene Carmen Martín Ayuso, 87enne di Vallecas, che due anni fa provò sulla sua pelle la sconfinata solidarietà dei suoi concittadini. Quando il Tribunale di Madrid intimò di sfrattarla dalla casa in cui aveva vissuto per cinquant’anni, il club raccolse i 21mila euro necessari per saldare le spese arretrate della sua abitazione. Il quartiere intero si riversò per le strade il giorno dello sfratto, mentre l’allenatore di allora, Paco Jémez, divenne paladino della battaglia mediatica di concerto con i Bukaneros.

Storia simile è toccata a Wilfred Agbonavbare, storico portiere della nazionale nigeriana che sorprese il mondo a USA ’94, con un passato al Rayo dal 1990 al 1995. Wilfred una volta ritiratosi dall’attività agonistica decise di trasferirsi insieme alla moglie a Vallecas, il luogo in cui si sentiva più a casa lontano dalla Nigeria. Le fortune accumulate non erano tante, così condusse una vita modesta, nel pieno stile del barrio: tanti lavori di fortuna e una passione, quella del calcio, portata avanti come allenatore dei portieri del Deportivo Coslada, una squadra amatoriale. Poi l’inferno: alla moglie fu diagnosticato un cancro al seno che non fu sconfitto nonostante i costosi trattamenti in Florida, mentre lo stesso Wilfred si ammalò di tumore osseo poco dopo. I Bukaneros decisero di pagare il volo ai figli di Agbonavbare per concedergli un ultimo saluto. Alla sua morte, il 27 gennaio del 2015, il club intitolò a suo nome l’ingresso numero uno dello stadio, lo stesso che aveva indossato al Rayo per cinque anni. Gli immigrati di Vallecas, un tempo sostenitori passivi del Real Madrid, adesso affollano le curve del Campo de Fútbol. Wilfred è il simbolo del melting pot rayista.

Le contraddizioni del Rayo

C’è un paradosso che invade le strade di Vallecas. Quello di un calcio che non vive di risultati perché essenzialmente strumento di propaganda, ma che alla fine i risultati li ottiene. Nonostante le finanze ridotte e uno tra gli stadi più piccoli delle prime leghe spagnole, il Rayo Vallecano sopravvive da dieci anni a cavallo tra Primera e Segunda División, sfidando le corazzate iberiche con la sfrontatezza di chi non ha nulla da perdere. Nella nutrita simbologia rayista c’è spazio anche per un’ape: sinonimo di operosità, collaborazione, spirito sociale, un insetto che dà fastidio, che punge, come il Rayo con le grandi del calcio spagnolo. A farne le spese anche il Real Madrid che nel 2012 ha espugnato il Campo de Fútbol con uno striminzito 0-1 in quella che Mourinho ha definito la vittoria più difficile dell’intera stagione, ripetendosi poi nel 2016, l’ultimo anno del Rayo in Liga prima dell’attuale retrocessione, con Gareth Bale a risolvere il rebus di Vallecas nel sudatissimo 2-3 finale.

La storia del Rayo Vallecano inizia nel 1924, anno di fondazione dell’Agrupación Deportiva El Rayo. Da lì cinquantatré anni di spola tra la Segunda e la Terciera División, poi la prima, storica promozione in Liga nel 1977. Dopo un’altra decade abbondante di cadetteria, il 1991 è l’anno dell’avvento di José Maria Ruiz-Mateos, uno dei personaggi più controversi della storia di Vallecas.

Sotto la gestione di Ruiz-Mateos, presidente del club fino al 2011, il Rayo ha sì costruito una credibilità a livello sportivo, ma si è esposto ad una lenta increspatura con la falange più estrema del tifo raysta. I risultati migliori della storia del club, un nono posto nella Liga del 1999-00 (record migliorato poi nel 2008-09 con l’ottava posizione) e la seguente qualificazione alla Coppa UEFA con quarti di finale annessi, non cancellano i trascorsi personali di Ruiz-Mateos: uomo di potere, Ruiz è stato a lungo nel mirino della magistratura spagnola a causa della gestione fraudolenta della società Rumasa, poi confiscatagli dal Tribunale Supremo per evasione fiscale. Nella sua fedina anche l’accusa di peculato, che gli è costata il carcere dal 2007 al 2011, e un’aggressione all’ex ministro dell’Economia Miguel Boyer, colpito con un pugno da Ruiz al momento dell’espropriazione della sua azienda.

Le numerose vicende giudiziarie hanno costretto il presidente del Rayo a lasciare a più riprese la gestione del club alla moglie Teresa Rivero, cui è stato intitolato lo stadio di Vallecas. Un altro smacco per i Bukaneros che nel 2011 hanno salutato l’addio alla presidenza di Ruiz con una coreografia tout court: “87 anni di storia meritano più rispetto” il messaggio, mentre poco sopra Ruiz veniva rappresentato con un ambigua sagoma del Padrino. L’avvicendamento con Martin Presa nel 2011 non sembra aver sortito gli effetti sperati: l’attuale Presidente del Rayo, arrivato a Vallecas per far fronte alle misure della Ley Concursal (una serie di provvedimenti legali impugnati delle banche creditrici di cospicue somme di danaro), viene unanimemente considerato l’erede di Ruiz-Mateos.

Contro il sistema

“Como un Rayo” è un singolo degli Ska-P, una band autogestista che si è formata all’interno del barrio, e che ha finito per custodirne in musica i segreti. “Como un Rayo” non è soltanto l’inno del club. Sono le note che accompagnano le proteste delle gente e le iniziative benefiche portate avanti dalla comunità: ogni anno i Bukaneros organizzano mense per gli indigenti, raccolgono regali per i bambini più poveri del quartiere, e devolvono i ricavi della vendita di magliette alla ricerca contro il cancro o alla comunità LGBT. In cambio chiedono soltanto una maggiore libertà d’espressione.

Tra le più iconiche proteste messe in atto dai Bukaneros negli ultimi anni, c’è sicuramente quella contro le restrittive misure di sicurezza varate dal governo spagnolo in seguito alla morte di Willy, tifoso del Deportivo La Coruna. Bersaglio delle invettive sarebbe il Presidente della LFP (Liga de Fútbol Profesional) Javier Tebas, reo di un passato da militante in Fuerza Nueva, il partito di estrema destra, e quindi in netta antitesi con le ideologie antifasciste di Vallecas. Nel febbraio di due anni fa dopo che quattrocento bengala furono sequestrati dalle forze dell’ordine, i Bukaneros organizzarono uno sciopero del tifo fino al maggio seguente. Quando ripresero posto in curva lanciarono in campo altrettanti palloncini arancioni in onore della libertà: un gesto forte in opposizione a chi come Tebas vorrebbe trasformare gli stadi in tante piccole Guantanamo.

Poco importa se parte della società sia finita in mano ad una cordata cinese che i sette colori della banda obliqua rayista, uno per ogni male da sradicare (omofobia, razzismo, cancro…), li calpesta ogni giorno negli affari. Poco importa se il brand Rayo sia stato esportato nella NASL (la seconda divisione del campionato statunitense) , in una anacronistica operazione di marketing che ha condotto alla fondazione del Rayo Oklahoma City. Anche al netto di contraddizioni, di politiche di gestione ambigue e di una vuota brandizzazione, il Rayo è un simbolo per chiunque si senta solo. Vallecas è un isola dove si lotta, ma il motore di ogni fermento resta l’amore della sua gente.