In the Name of the Father

Domenica scorsa, al minuto 39’ di PEC Zwolle-Ajax, ha esordito in Eredivisie Justin Kluivert, figlio di Patrick.

Pellicola struggente quella a firma di Jame Sheridian, storia di autobiografica redenzione ambientata nel Regno Unito a metà degli anni ‘70. In “In the Name of the Father” Gerry Conlon e il padre Giuseppe vengono ingiustamente arrestati a seguito di un attentato terroristico avvenuto a Guildford perché ritenuti responsabili della strage nonché pericolosi affiliati dell’IRA. Alla morte di Giuseppe, dopo anni di lotta per far luce sulla verità, il figlio affronterà le ultime battaglie processuali con l’intento di ottenere la libertà e di sanare l’immagine della famiglia Conlon.

La ricerca del riscatto è anche il leitmotiv che permea ogni passo di Justin, a caccia di una provvidenziale riabilitazione dei Kluivert dopo anni bui e incerti. Il debutto con i Lancieri, a ventidue anni di distanza da quello di Patrick, datato 28 agosto 1996, ultima il cerchio della predestinazione. Da Giuseppe a Gerry, da Patrick a Justin, transita un topos letterario infinito: il figlio che riesce laddove il padre aveva fallito.

Se nel film la morte del padre stravolge Gerry a tal punto da indurlo ad un cambiamento radicale –il ragazzo placa l’irriverenza e si vota anima e corpo alla causa, rilevando i valori e i propositi di Giuseppe -, nel caso di Justin non c’è alcun evento traumatico. A ben vedere, però, un punto di rottura esiste. Non è netto ma lieve, cerebralmente raffinato perché improntato all’emulazione: Justin, pur volendone solcare le orme, non vuole essere suo padre. Vuole essere quello che suo padre, pur andandoci molto vicino, non è mai riuscito a diventare.

Chiunque abbia respirato gli scenari calcistici a cavallo dei due secoli non può non aver esultato dopo un gol di Patrick Kluivert. Chiunque abbia seguito l’ultima giornata di Eredivisie (decisamente un po’ meno) non può non aver notato quello stesso magnetico senso di regalità negli occhi del figlio Justin. Stesso sguardo fiero, profondo e tenebroso. Stessa voglia di spaccare il mondo a metà, con invidiabile eleganza.

Si sa, le carriere dei calciatori sono un po’ la cartina di tornasole della nostra vecchiaia, scandiscono le epoche della vita con invidiabile precisione. E nel momento in cui Justin ha messo piede in campo migliaia di persone hanno dovuto fare i conti col tempo. Le sensazioni provate sono state tendenzialmente due: un senso di stupore davanti a quello che pareva essere un ologramma di Patrick, in una sorta di tributo di “Ritorno al futuro“, o una stizzosa malinconia. Proprio quella che sale all’improvviso vagando tra i ricordi delle primavere trascorse, o la stessa che si insinua ripensando ad un campione che non ha mai rispettato, fino in fondo, le attese.

Sì, perché quando si fa il nome di Kluivert è inevitabile sospirare. E’ vero, ha vinto tanto e segnato ancor di più dall’alto dei suoi 422 gol tra club e nazionale olandese. Ma non è riuscito ad entrare nel cerchio dei più grandi. Ci è arrivato ad un palmo, ingrandendo anno dopo anno il carico di aspettative dopo il precoce trionfo in Coppa dei Campioni con l’Ajax del 1995, salvo poi scivolarne lontano con altrettanta costanza. I ricordi migliori sono quelli legati al Barcellona: sei stagioni da pioniere in terra catalana dove è diventato il sesto miglior marcatore di sempre nella storia del club, oscurati da una discussa partenza all’alba dell’era Messi. Per il resto ha deluso al Milan, non ha impressionato né al New Castle né al Valencia. Ha provato a rilanciarsi al Lille e al PSV ma a quel punto di Kluivert pesava più il nome che altro. Patrick è stato l’emblema del Millennium Bug: la promessa di una gigantesca esplosione spazzata via in un sorprendente (e deludente) nulla di fatto.

Ed è proprio alle soglie del nuovo millennio che è iniziata la strada di Justin, nato ad Amsterdam il 5 maggio del 1999. Stessi sogni del padre tra i canali d’Olanda, con le radici surinamensi un po’ più lontane. A sei anni era già tra i giovanissimi del SV Diemen, piccola parentesi prima di legarsi ai lancieri, con i quali, nell’allora selezione Under 13, si è reso protagonista di un controverso episodio: dopo un gol segnato al Volendam lui e i suoi compagni si sono radunati verso l’angolo del campo mentre uno di loro, brandendo la bandierina come fosse un mitra, ne ha simulato l’esecuzione. Un’esultanza decisamente macabra per un’accozzaglia di ragazzini alle soglie della pubertà.

Mentre il padre girovagava per l’Europa alla ricerca di una nuova occasione, Justin ha respirato a pieni polmoni i dogmi del total voetbal. Ha assimilato quel modo, essenzialmente orange, di intendere il calcio nella sua interezza, ricercata attraverso l’incessante collaborazione tra compagni e la cura maniacale per i fondamentali: questo il background che lo ha reso un’ala destra di gran prospettiva, per molti, anche più talentuoso dello stesso Patrick. In quello che di fatto è un inevitabile scontro generazionale a lunga scadenza, lui, la prima vittoria, se l’è già presa: nel giorno del debutto, la timeline di Justin ha segnato 17 anni, 8 mesi e 10 giorni. Quella del padre 18 anni, 1 mese e 27 giorni. Un mostro di precocità.

A voler essere precisi, l’esordio nel calcio dei grandi era già avvenuto qualche mese prima, il 16 settembre dello scorso anno. Stessi colori ma formazione diversa, vale a dire quella dell’Ajax Jong, la squadra di riserve dell’Eerste Divisie con cui Justin ha cumulato finora 5 presenze e 2 gol. E’ già possibile ammirarne l’elevato skill cap tecnico in decine di video presenti su Youtube in cui mette a sedere con invidiabile irriverenza una moltitudine di sprovveduti coetanei delle leghe giovanili: ora con una finta di corpo, ora con un doppio passo, ora con un calcio sferrato prima che il difensore possa anche solo intuirne i piani. Tuttavia, il tipo di clip che restituisce un’immagine più indicativa non è quella che mostra cosa sia Justin, ma quella che svela chi è e cosa ha intenzione di diventare.

My 2017” (clicca qui per il link), pubblicato dal canale Youtube dell’Ajax, è il titolo del video in questione: un elenco di buoni propositi fissati per l’anno nuovo, condensati in poco più di un minuto e mezzo in cui Justin si presenta come un ragazzo semplice, tuta addosso e pallone in mano tra i vicoli di Amsterdam. Lo sguardo fisso in camera anticipa per serietà e determinazione le parole che pronuncerà di lì a poco: «Il 2017 sarà il mio anno». Non è una speranza, è un dato di fatto. Lui lo sa con largo anticipo rispetto a chiunque altro.

La razionalità con cui fissa i vari obiettivi (partecipare agli Europei under 19, vincere la Youth League, giocare con continuità tra prima e seconda squadra) è degna di un automa più che di un ragazzo appena diciassettenne. Il fulcro della pianificazione è semplice come il terzo principio della dinamica: ad ogni sforzo corrisponde un successo, uguale per intensità, contrario per genere. Non c’è aleatorietà, il suo lavoro deve essere ripagato. Il margine d’errore è ridotto ai minimi termini, e per di più trasuda ottimismo: «Forse le cose gireranno meglio di come penso» – dice.

Intanto uno di quei target lo già ha centrato: solcare il campo con la maglia dei Godenzonen, letteralmente ‘I figli degli dei’, strizzando un occhio ad un fulgido destino. Non resta che vedere se le altre profezie avranno modo di compiersi, o resteranno, come per chi di divino ha ben poco, dei semplici propositi destinati a scolorirsi con l’incedere del tempo. Quegli occhi sembrano contenere la risposta.

Ah, qualora qualcosa dovesse andar storto, in casa Kluivert hanno già pronto un altro degno erede. Lui è Shane, secondogenito di Patrick, ha appena nove anni e gioca nelle giovanili del PSG. E’ in grado di palleggiare così insieme a Lucas Moura.

La genetica è decisamente una brutta bestia.