La solitudine dei calci di rigore


Sabato sera ho versato dell’amaro in un bicchiere con del ghiaccio, e l’ho buttato giù tutto d’un fiato per stordirmi e rendere tutto più leggero. Un tentativo maldestro di intorpidire mente e viscere quando l’ansia ti corrode lentamente dalla testa ai piedi. Al momento del rigore di Pellè il mio cane mi è saltato addosso, schiacciando con tutta l’irruenza che le appartiene, tasti a caso del telecomando posizionato a fianco. Il luccicante prato di Bordeaux ha lasciato spazio al tipico grigiore di una tivù smarrita. Perché quelle flebili fiammelle bianche, grigie e nere, che sfavillano convulsamente, sono l’istantanea della perdita dei sensi. Un muro senza identità né rimandi, che paralizza e stordisce, un po’ come un bicchiere d’amaro, buttato giù tutto d’un fiato. Ma a posteriori, forse è stato meglio guardare quella parete anonima e annichilente. Forse il mio cane l’ha anche fatto apposta. Vedendomi così provato, ha ben pensato di frenare un’ulteriore fuoriuscita di bile.

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E’ servito del tempo per metabolizzare il lutto. E per prendere contezza di tutte le variabili emotive che si sono intersecate in questi giorni. Un po’ come fare un passo indietro e cambiare prospettiva, per non perdersi in esternazioni umorali e scandagliare la disfatta sotto lenti più spesse. In fondo noi siamo quelli che gesticoliamo quando parliamo. Noi siamo quelli viscerali e sanguigni, che coltiviamo la nobile arte del sapersi arrangiare. Ma certe volte è giusto tenere a bada le emozioni e tacere, essere un po’ tedeschi. Loro parlano poco, pianificano, e sono i maestri dell’organizzazione.

Eppure, a ben guardare, il campo ha sconfessato gli stereotipi. O almeno parzialmente. Alla vigilia dell’incontro tra Italia e Germania la Bild, noto tabloid con sede ad Amburgo, ha pubblicato un pezzo dal titolo ‹‹Italia, sei spacciata›› elencando i sette motivi di un trionfo tedesco già annunciato. Una manifestazione di superiorità, e se vogliamo una distorta forma di programmazione, che stravolge il modo tipicamente italico di approcciarsi agli eventi. Da noi un articolo del genere non sarebbe mai uscito, vuoi perché obiettivamente i favori del pronostico pendevano in direzione contraria, vuoi perché la scaramanzia è parte del nostro patrimonio genetico. Un fatto culturale che non conosce distinzioni, che ci accomuna tutti, da Bolzano a Siracusa.

3-5-2 da un lato, 3-5-2 dall’altro: alla partenza è stato già tutto un equilibrio. Nonostante l’evidente gap tecnico, Italia-Germania è stato un gioco di specchi. Löw ha abbandonato la sua formazione tipo e ha varato un modulo inedito, costruito ad arte per imbrigliare le trame degli azzurri. Ho ripensato subito al titolo della Bild. Questi per batterci hanno bisogno di giocare come noi. E subito i lungimiranti proseliti di supremazia sono svaniti, lasciando il posto ad una sorprendente ed inquietante attestazione di umiltà. Italia Germania è stata una partita in cui ognuno ha affrontato il suo clone, in un girovagare di mosse speculari. In campo ogni giocatore aveva il suo alter-ego, disposto nella medesima posizione, educato a compiti simili. Per ogni azione c’era una reazione già programmata, ben nota sia nella testa di chi la eseguiva che di chi la subiva. E’ fisiologico che il tempo sia trascorso senza acuti, in un costante bilanciamento di forze che ha nullificato gli spazi creativi. Nell’apologia dell’equilibrio abbiamo vinto noi, almeno moralmente. Noi non abbiamo cambiato una virgola del nostro DNA. Loro hanno fatto di tutto per assomigliarci. Il paradosso di quel quarto di finale maledetto è una discrasia tra fine e metodo. La Germania ha mantenuto fede alla sua vena razionalistica di programmazione e organizzazione, puntando però a diventare l’opposto di sé stessa. Utilizzare il metodo per snaturarsi significa tradire la propria essenza ma nel modo più coerente possibile. Poi al termine dei tempi supplementari la visione d’insieme si è persa e tutto si è ridotto ad una questione di resistenza alla solitudine. Quando il metodo sfuma, parlano le viscere.

Il soffio di dio

Era il 120’ di Germania-Italia. Buffon e Schweinsteiger si ritrovavano nuovamente al centro del campo per decidere verso quale porta tirare i rigori. La monetina ha strizzato l’occhio ai tedeschi, Schweinsteiger con un ghigno sommesso ha puntato il dito contro la curva azzurra. ‹‹Really?›› – ha chiesto incuriosito l’arbitro Kassai. ‹‹Yes, really››. Eccola lì finalmente, la tanto attesa dimostrazione di superbia. Non soltanto erano sicuri di vincere, ma volevano umiliarci per vendicarsi di mezzo secolo di disfatte. A quel punto una nazione intera ha puntato il dito contro il cielo e nel più intimo dialogo interiore ha esclamato: ‹‹Se esisti sai che devi fare››. Non so se sia andata realmente così, ma mi elettrizza sensibilmente immaginarlo. Anche questa è un’attitudine tipicamente latina di sconfinare nel divino, corrompendolo con una richiesta che trasuda pragmatismo. Nell’antica Grecia il peccato più grande era macchiarsi di ὕβϱις. (Hybris). Sfidare il fato, andare contro una legge implicita che sovrasta l’uomo gettandolo in balia di forze esoteriche. Schweinsteiger, puntando il dito contro la curva azzurra, ha firmato la sua condanna a morte. Da lassù non avrebbero potuto tollerare un gesto così tracotante. C’è un limite a tutto. Mentre Schweinsteiger si avvicinava al dischetto, la tivù vomitava angoscia. Perché quel calcio di rigore non era più soltanto calcio, era quasi una questione religiosa. Fuori. Dio esiste e ha soffiato via la palla di quel crucco. Quando Schweinsteiger ha sbagliato il rigore ho seriamente pensato che non avremmo mai potuto perdere quella partita. La legge inesorabile degli dei del calcio aveva sentenziato.

Pochi giorni fa il capitano tedesco ha spiegato le ragioni della sua scelta. All’apparenza un giudizio sfacciato, anticonvenzionale, temerario. Ma figlio di un modo di pensare che con il prototipo teutonico ha ben poco a che fare. Il motivo della sua decisione ha radici profonde: finale di Champions League del 2012. Il Bayern ha la fortuna di giocarla in casa contro il Chelsea di Di Matteo. Si arriva ai rigori, che vengono calciati sotto la curva bavarese. Vincono gli inglesi, l’errore decisivo è proprio di Schweinsteiger. Poi la conferma: sempre all’Europeo, la Svizzera esce contro la Polonia calciando al cospetto dei propri tifosi. Altro che metodo e organizzazione. Altro che razionalità e superbia. Schweinsteiger è stato italiano, fin troppo italiano. Bastian ha scelto sulle basi di una casistica che non trova sostentamento nella ragione, ma nella superstizione. La scaramanzia negli occhi di un crucco, che non sfida la sorte ma se l’ingrazia. Cose dell’altro mondo.

Le ragioni dell’errore

Il tratto distintivo della spedizione in terra francese, è stata l’esaltazione di un gruppo composto da individualità modeste ma eccellenti nel combinarsi insieme. L’etica del lavoro trasmessa da Conte ha occultato le debolezze sul piano tecnico, esaltando una finissima meccanica globale. Regole semplici, basilari ma condivise e applicate da tutti, nel segno di uno spirito puramente operaio. Mentre la somma delle pedine finisce per esautorare le forze, l’aggregazione in un sistema le esalta. Durante i calci di rigore qualcosa è andato storto, come se di colpo parte di quella coscienza votata all’umiltà fosse svanita nel nulla. Forse perché dagli undici metri la forza dell’insieme non conta più, si è maledettamente soli in un contesto surreale in cui anche il tempo smette di scorrere.

Le reazioni del web al termine della partita non si sono fatte attendere, e i rigori di Zaza e Pellè sono stati fin da subito oggetto di pubblico ludibrio. I social network sono una panciera democristiana che accoglie schiacciando le differenze, l’espressione più diretta (e di conseguenza meno ragionata) degli umori di un paese. Lasciando da parte gif animate e fotomontaggi da Oscar, la verità è che la tarantolata rincorsa di Zaza e le provocazioni di Pellè sono figlie della solitudine. Il fallimento sta in un triste compromesso: quando si è soli, spesso, per colmare le lacune, si prova ad ostentare una maestosità che non si possiede; dall’altro lato quando ci si avvicina all’impresa il rischio è quello di sentirsi immortali. Smanie di grandezza alimentate da correnti differenti ma che conducono al medesimo peccato. Ed è un passo a cadere nella ὕβϱις, l’ipervalutazione delle proprie capacità, nella dimenticanza dei propri limiti. Poco importa se molto probabilmente dietro questi gesti fumosi e tracotanti ci sia stata una paura indomabile. A far male non è tanto una traiettoria sbilenca, ma il gesto etico che l’ha preceduta. Senza rispetto o religione, nessun ossequio alla scaramanzia. Nell’esaltazione della superbia Zaza e Pellé a loro modo sono stati tedeschi, fin troppo tedeschi. E da lassù qualcuno ha provveduto.

Non ti scordar di me

Sulle lacrime di Buffon e Barzagli è calato il sipario su un sogno covato sommessamente che ha sradicato partita dopo partita ogni legittimo scetticismo. Per una volta non è stato necessario ricorrere alla delocalizzazione emotiva per sentirsi vivi: la favola l’avevamo in casa, la Cenerentola del ballo eravamo noi. Forse anche per questo la sconfitta ha fatto più male del previsto. Un’intera nazione ha razionalizzato il percorso degli azzurri, credendolo inscindibile da un doveroso lieto fine. ‹‹Nessuno si ricorderà di questa nazionale, nessuno si ricorderà di noi››. Ai microfoni di Sky Barzagli  ha così commentato l’uscita da Euro 2016, e probabilmente ha ragione. E’ difficile cristallizzare una favola, cementificarla nel tempo, senza che ci sia un finale congruo alle premesse. Una bella storia finita nella maniera più improbabile è destinata a sgretolarsi. Ma non è poi chissà quale tragedia. Indipendentemente dalla capacità di questa storia di imprimersi nella memoria collettiva, noi ci siamo goduti quest’avventura. Al di là del risultato e dell’epilogo, quello che conta è il messaggio. Che unisce, stringe, vivifica. E che ci fa emozionare. Per una volta non è tanto il fine in sé, quanto il metodo ad avere valore. Caro Andrea, oggi, ad una settimana di distanza, siamo ancora orgogliosi. La retorica dell’impresa (sfiorata), per quanto sia inflazionata e abusata, non nascondiamolo, la si declama sempre con gusto.

Piccola nota a margine. Nella mia breve esperienza calcistica quando c’era da tirare un rigore non mi sono mai fatto avanti (né i miei amici mi avrebbero concesso di farlo per le mie discutibili abilità balistiche). Qualora avessi dovuto calciare avrei senz’altro utilizzato la tecnica di De Sciglio: testa bassa, rincorsa veloce, occhi chiusi e via di potenza. Come va va, senza troppi rimpianti. Vuoi per ridurre il tempo in cui nella testa possono frullare liberamente le più nichilistiche fantasie, vuoi per mantenere un profilo basso, in linea con la mediocrità dei piedi. Non ho mai capito perché certi calciatori eseguano le rincorse più arzigogolate. Sembra quasi una ridondante danza di corteggiamento, un po’ goffa e spesso per niente funzionale. Alla fine quello che conta è piazzarla in un rettangolo largo 7,32 e alto 2,44 metri. Poco importa quello che viene prima.