La fiumara Saponara

Quando penso a Riccardo Saponara le prime cose che mi vengono in mente sono l’Empoli, un paragone per certi versi controverso, per altri perfettamente calzante con Kaká, e un piccolo paese siciliano di quattromila anime situato nella provincia di Messina. L’ultimo rimando, frutto esclusivamente della mia provenienza geografica – mi viene difficile pensare che un valdostano conosca i paesi a ridosso dello Stretto – è tanto inusuale quanto a suo modo rivelatore.

Il comune di Saponara sorge ad una ventina di chilometri ad ovest da Messina, alle pendici dei Monti Peloritani, esposto alla convergenza di due torrenti, Cardà e Pararella, che confluendo l’uno nell’altro danno vita ad una modesta fiumara in prossimità del versante tirrenico. L’affluenza idrica da quelle parti non è sicuramente la stessa che si registra tra le statuarie catene alpine – nessuna punzecchiatura agli amici valdostani, lo giuro – e così la fiumara, ribollente d’inverno durante le copiose precipitazioni torrenziali, dissipa rapidamente ogni tumulto al levare del primo sole primaverile. L’elasticità con cui il bacino acquista e perde vigore inchinandosi con ineluttabile riverenza all’alternanza delle stagioni ricorda il moto ondoso dell’altro Saponara, quello che con la maglia numero dieci dell’Empoli costeggia il confine tra aridità e abbondanza, valicandolo ciclicamente ora in una, ora nell’opposta direzione.

Nel gennaio del 2015, esattamente a ridosso del girone di ritorno – un momento critico per qualunque squadra in cui si traggono bilanci e si stilano previsioni – l’Empoli faticava parecchio. Non tanto sulle carte di una consunta scrivania quanto sul campo, che seppur sedotto dalle fascinose geometrie di Sarri si mostrava piuttosto avaro quando c’era da ricambiare con dei punti in classifica un modello di autorevole brillantezza estetica. Bel gioco ma tornaconto carente, tipica condanna di chi tende – con tutta la stima di chi scrive – a plasmare gli uomini con la forza delle idee piuttosto che a perseguire la logica del risultato ad ogni costo. Le presunte esigenze di una rivoluzione sono prontamente placate dall’arrivo di Saponara, a caccia di redenzione dopo un’insipida parentesi al Milan. E’ lì che la delusione personale del giocatore si combina con la frustrazione collettiva di un Empoli in piena lotta della salvezza generando un salvifico mutuo soccorso. L’Empoli inizia a macinare punti e non più soltanto gioco – trovando in Saponara il tassello mancante del puzzle – mentre Richi si va consacrando come uno dei prospetti più appetibili del calcio italiano.

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In quella mezza stagione totalizza sette gol in diciassette presenze, risultando il secondo miglior marcatore della formazione toscana alle spalle di Maccarone (10) con all’attivo però la metà dei minuti giocati. Quello che i numeri non riescono a restituire è la radicale trasformazione di un uomo, passato dall’aridità di un terreno instabile alle fecondità di un contesto che ne ha esaltato i pregi e mascherato i difetti. Il Saponara intravisto al Milan nell’arco di un anno e mezzo va valutato sotto una lente che tiene conto delle sfumature del caso. La prima riguarda il numero di presenze accumulate, appena otto in diciotto mesi di permanenza all’ombra – è il caso di dirlo – della Madonnina, che costituiscono di per sé un dato insufficiente per poter trarre dei giudizi. Le altre afferiscono alle bizzarre vicende che hanno accompagnato il suo trasferimento.

Arrivato a Milano dopo due stagioni in Serie B con gli empolesi, l’ultima delle quali segnata da una costante crescita personale, è vittima di un quadro tattico di profonda rivisitazione. Si tratta di un Milan che saluta nostalgicamente le ultime bandiere e si apre controvoglia al cambiamento, individuando in De Sciglio, El Shaarawy e Cristante le nuove leve di una scellerata ed infausta sperimentazione. In quella squadra Saponara è designato dagli addetti ai lavori come il trequartista titolare, più per assenza di valide alternative che per meriti sostanziali. Ed è allora che la dirigenza rossonera inscena un siparietto degno della migliore commedia all’italiana: dopo aver negato categoricamente il ritorno di Kaká facendo leva sull’incompatibilità dello stipendio percepito con le morigerate casse di Via Turati, il brasiliano alla fine arriva pizzicando le viscere di uno stomaco trepidante. Al quasi omonimo che ha la sventura di non portare la ventidue sulle spalle viene chiuso ogni spazio mentre tutti i malumori della piazza scivolano via sulle note malinconiche e melense di “Amici Mai” di Venditti, relegati sotto un tappeto malconcio destinato a deformarsi col tempo.

Una pubalgia patita ai nastri di partenza del campionato fa il resto nella definizione delle gerarchie, qualora ce ne sia ancora bisogno. Saponara recupera piuttosto velocemente dai fastidi muscolari ma al suo rientro si prosciuga in panchina, mentre Kaká lascia trasparire soltanto a tratti le fiammate del vecchio genio, convivendo per il resto del tempo con l’alone di grigiore tipico delle ultime primavere. La situazione non sembra poi dispiacergli così tanto. In fin dei conti si trova in club prestigioso, a soli ventidue anni, alle spalle del suo idolo d’infanzia. Ne studia le movenze, ne ripercorre i passi e le accelerazioni come farebbe un fido discepolo al cospetto del suo maestro. Per quanto improduttiva, in termini strettamente numerici, l’esperienza al Milan serve a Saponara come un prestigioso master in un’illustre università. Non può che trarne preziosi insegnamenti. Non è un paradosso che l’accostamento a Kaká per similitudini calcistiche sia stato riproposto con maggiore insistenza durante la nuova esperienza ad Empoli, fase in cui ha avuto modo di testare sul campo un rivisitato background professionale.

La similitudine, per quanto ardita, segue una logica coerente. Il punto di contatto più chiaro tra i due riguarda la capacità condivisa di ricevere palla tra le linee, girarsi e procedere a grandi falcate verso la porta. Ecco, quel “girarsi” è l’aspetto che autorizza un paragone per altri versi insostenibile: i modi di saltare un avversario sono infiniti, ma Kaká e Saponara mostrano una sorprendente sincronia nel gesto utilizzato. Solitamente si tratta di un unico impercettibile tocco effettuato con tempismo tale da disorientare programmaticamente il difensore. E’ come se sapessero, in un una perfetta congiunzione di spazio e tempo, quale esatto punto del pallone colpire per rompere l’inerzia e produrre un’azione pericolosa. Ed è proprio a partire da questo particolare che definiscono una specifica maniera di interpretare il ruolo di trequartista. Non sono dei pensatori, né dei registi avanzati inclini al passaggio smarcante (anche se si tratta di un fondamentale che entrambi non disdegnano) quanto piuttosto dei giocatori che fondano la propria essenza sul dinamismo. La fase della progressione, devastante in Kaká, un po’ meno in Saponara, è semplicemente il lascito tangibile di un colpo repentino che passa inosservato a degli occhi impreparati.

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La convivenza al Milan ha permesso a Saponara di declinare un semplice imprinting in un calderone di movimenti consolidati. Non di rado ha espresso la sua maniacale attenzione nell’emulazione del brasiliano: un finissimo lavoro di studio, condotto sia dentro che fuori dal campo con noiose ore di video, che hanno permesso di meccanizzare gesti, posture, movimenti. D’altronde è così che si costruiscono le abitudini. E’ attraverso la reiterazioni forzata dell’atto che transita la più completa appropriazione.

La carica emotiva di questo apprendistato deve aver raggiunto il suo stadio terminale durante un derby di metà dicembre del 2013 nel quale Saponara ha fatto il suo esordio insieme a Kaká. Schierati contemporaneamente in campo, uno da trequartista, l’altro da seconda punta, dopo un inizio promettente – il tunnel di Saponara a Campagnaro resta probabilmente uno degli episodi più evocativi quanto evanescenti del suo vissuto in rossonero – perdono progressivamente mordente, senza lasciare traccia nel corso della partita. Quella gara è una lampante rappresentazione della più grande croce di Saponara: a differenza del brasiliano, non è in grado di decidere da solo le partite. Per quanto possa avvicinarsi tecnicamente allo skillset di Kaká, non possiede la stessa straripante forza di distorcere a proprio favore il tempo e lo spazio.

La separazione dal Milan diventa una valida opzione quando nel gennaio del 2014 le possibilità di vedere il campo si riducono all’osso con l’arrivo di Taarabt e Honda, anche loro infauste meteore del programma di rivoluzione rossonero. Saponara medita di lasciare Milano in quella stessa sessione di mercato, ma alla fine decide di restare, confidando di potersi ritagliare uno spazio all’interno di una rosa che definire sperimentale è quasi un eufemismo. L’anno successivo Inzaghi – che nel frattempo ha sostituito Seedorf senza però riuscire a combinare granché – gli promette una maglia da titolare, non più alle spalle delle punte ma come mezzala nel 4-3-3. Ennesima promessa non mantenuta: Richi gioca appena 90 minuti in tutto il girone d’andata e la filastrocca del club prestigioso che offre comunque degli spunti di crescita non la beve più tanto volentieri. All’alba del 2015 nonostante arrivino delle offerte invitati, come quella del Sassuolo di Di Francesco, Saponara sceglie coscienziosamente di trasferirsi all’Empoli, affascinato dal disegno tattico proposto da Sarri: dovrebbe agire da trequartista in un modulo, quel 4-3-1-2 ,che conosce alla perfezione, nella terra che l’ha nutrito e svezzato nel calcio dei grandi, guidato da un tecnico che è disposto a tutto pur di averlo con sé. A quel punto il successo è tutta una questione di chimica tra opportunità e preparazione.

Come detto in precedenza, il contesto ambientale non può che restituire nuova linfa alle aspirazioni calanti di Richi. Questa volta è al centro di un progetto che seppur ridimensionato rispetto a quello del Milan gode di maggiore credibilità, senza parlare poi del quadro tattico che sembra essergli cucito su misura: stazione tra il centrocampo e la difesa avversaria, scannerizzando le debolezze del sistema per far esplodere la cassaforte al momento giusto con la solita, inaudita delicatezza. I tagli in profondità di un attaccante vecchia maniera come Maccarone semplificano non poco il lavoro, aprendo ulteriori spazi in cui dilagare in progressione. Così si spiegano i 7 gol in appena mezza stagione, un’enormità se paragonati ad una media reti mai particolarmente significativa. La tendenza alla finalizzazione, del resto, non l’ha ereditata da uno qualunque.

Volendo esaminare la rinascita da una prospettiva più tendenziosa si potrebbe legittimamente affermare che il successo ad Empoli – in una realtà che per quanto fertile resta comunque di seconda fascia rispetto al panorama nazionale – sia la dimostrazione più evidente del reale valore di Saponara. E che il fallimento in rossonero amplifichi un certo senso di inadeguatezza di fronte ad uno scenario di discreto prestigio. Risulta illuminante a tal proposito tornare per l’ultima volta sul paragone con Kaká: per quanto a livello estetico e meccanico la similitudine resti perfettamente calzante, la principale differenza tra il brasiliano e il nativo di Forlì si colloca sul piano dell’efficacia. Saponara è un clone di Kaká, riesce a rievocarne a pieno il modo di interpretare il calcio, ma il rapporto tra i due è lo stesso che intercorre tra un’opera d’arte e la sua copia, laddove la potenza espressiva cede al cospetto dell’imitazione. Saponara è un discreto giocatore di sistema, uno che vive una relazione di costante dipendenza dal contesto in cui è collocato. Migliora e impreziosisce il gioco, ma è l’andamento complessivo della squadra a dettare i limiti all’interno dei quali può incidere. Il confine tra la siccità e l’abbondanza, come nel caso della fiumara, è dato da agenti rigorosamente esterni.

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A sinistra La Gioconda di Leonardo da Vinci conservata nel Museo del Louvre di Parigi. A destra la copia della Gioconda esposta al Museo del Prado. Quale delle due vi colpisce di più?

La straordinarietà di quell’involucro è tale da perpetrarsi anche dopo l’addio del leader che ha guidato la rivoluzione. Il passaggio di consegne da Sarri a Giampaolo nell’estate del 2015 risulta non soltanto indolore, ma fonte di un ulteriore upgrade in termini di gioco e risultati. Sul fronte offensivo alla verticalità di Maccarone viene annessa l’”atipicità” di Pucciarelli, che con una serie di movimenti longitudinali calamita su di sé la restante attenzione della difesa avversaria. Saponara è ancora più libero, ha ancora più spazi nel settore centrale e trova quattro volte il gol in appena un mese di campionato. Si tratta di una fase di piena straordinaria alla quale seguirà un periodo di aberrante aridità che ancora, purtroppo, non ha trovato fine.

Exploit iniziale a parte, la stagione con Giampaolo è un lento diminuendo. Ai quattro gol nelle prime giornate ne seguirà soltanto un altro in 33 presenze complessive, nonostante l’Empoli riuscirà addirittura a migliorare il record di punti ottenuto con Sarri (46 a fronte dei 42 quando sulla panchina sedeva l’attuale tecnico del Napoli) conquistando la salvezza con largo margine. All’apparenza il contesto dovrebbe valorizzarlo ancora di più, se si considera che la squadra è praticamente la stessa dell’annata precedente,  ben rodata dunque nei meccanismi e nelle gerarchie. Paradossalmente però, l’unico a risentire del cambio di guida tecnica è proprio Saponara, costretto a interpretare il ruolo in maniera diversa da quanto richiesto da Sarri. Giampaolo è un maestro nell’alleggerire la transizione perché con grande astuzia, anziché stravolgere il modo di giocare della squadra lo salvaguarda, puntellandolo soltanto in alcuni tratti per conformarlo alla sua visione di calcio. La virata più evidente riguarda proprio i compiti del trequartista – ruolo non particolarmente gradito dal sistema di Giampaolo, che affonda il suo credo tattico nel 4-3-3 – chiamato a bloccare la fonte di gioco primaria degli avversari con una costante marcatura del regista. Saponara agisce da dispositivo difensivo avanzato, disperdendo preziose energie che vengono a mancare poi in sede offensiva. La scarsa vena realizzativa è però compensata da una minuziosa ricerca del passaggio smarcante che si traduce in nove assist nel corso della stagione. Meno appariscente, ma a suo modo valido, l’apporto di Saponara si declina in una notevole partecipazione alle reti della squadra: tra assist e gol un terzo delle marcature empolesi passa praticamente dai suoi piedi.

Il presente di Riccardo Saponara si lega, come sempre del resto, al mondo che cambia intorno a lui. La scelta di affidare la squadra a Martusciello – uno che ad Empoli è cresciuto umanamente e professionalmente – è il sintomo di una politica societaria che cerca di sviluppare un senso di continuità interna. Il modello di gioco è rimasto lo stesso, ma le cessioni di alcune pedine fondamentali come Mario Rui, Tonelli, Zielinski e Paredes, hanno determinato un evidente impoverimento del tasso tecnico globale e la necessità di trovare nuovi equilibri all’interno del sistema. Saponara è rimasto vittima delle circostanze esterne mostrando ancora una volta l’intrinseca incapacità di autodeterminarsi, con coraggio, all’interno del contesto di riferimento. Come un corso d’acqua non rinfrancato dalle piogge è destinato a prosciugarsi in assenza di nuovi affluenti.

La sliding door della carriera di Riccardo Saponara non è ancora arrivata, e mai arriverà se non grazie ad un ulteriore passo in avanti in tema di responsabilizzazione. E così quando penso a Saponara mi vengono in mente quattro cose: una terra calcistica che prova a valorizzarlo, un paragone ambiguo con un fenomeno e un piccolo comune della Sicilia. L’ultima è il rimpianto di vederlo scendere singhiozzante a valle, quando dentro di sé avrebbe la forza tumultuosa e straripante di un fiume in piena.