#Supercoppa, appunti sparsi sulla finale di Roma

Un finale al cardiopalmo tinge di biancoceleste la notte dell’Olimpico regalando alla Lazio di Simone Inzaghi la Supercoppa italiana 2017, la quarta in assoluto per i biancocelesti che con quello di ieri portano a 14 i trofei complessivi in bacheca. Non illuda la rimonta nel finale della Juventus che sembrava destinata a trascinare la partita al supplizio dei supplementari. Non illuda perché è stato l’unico sussulto di vitalità di una squadra ancora alle prese con i postumi di Cardiff e che ieri, fatta eccezione per i cinque minuti iniziali del match, è stata surclassata tecnicamente, tatticamente e fisicamente da una Lazio che, nonostante la batosta della doppietta di Dybala, ha avuto l’ulteriore merito di saper raschiare il fondo del barile per raccogliere le energie residue necessarie a vincere con merito la gara. Ma andiamo con ordine ad analizzare cosa ci resta di questa notte dell’Olimpico.

Il primo punto fermo è che la Juventus non ha ancora smaltito le tossine di Cardiff. Inutile negarlo: la notte del Millennium Stadium ha incrinato equilibri e certezze dei bianconeri. A partire dalla solidità difensiva. Scontato ma inevitabile tirare in ballo Leonardo Bonucci. L’impressione, per altro supportata da un precampionato altalenante, che senza il centrale ora al Milan la Juventus avesse perso molto non solo in difesa ma anche in fase di impostazione ha trovato ieri sera conferma. Tre gol in novanta minuti non appartengono alla filosofia bianconera che in questi ultimi sei anni ha sempre fatto della difesa il suo fiore all’occhiello. Quello che con Bonucci-Barzagli-Chiellini sembrava un meccanismo oliato e praticamente imperforabile aveva in realtà cominciato a mostrare le prime crepe già nella scorsa stagione. Nel momento in cui è venuto a mancare il perno di questo trio, il banco è saltato. Barzagli deve vedersela con la carta di identità mentre Chiellini è un buon giocatore che assume una caratura diversa quando inserito tra diamanti puri; un po’ meno quando il compagno di reparto è grezzo quanto lui; come può essere il caso di Benatia o Rugani. Ad eccezione del gol vittoria siglato da Murgia, figlio di un grossolano errore di De Sciglio e dello strapotere fisico di Lukaku, l’imbucata centrale di Immobile da cui nasce il rigore del vantaggio biancoceleste così come il colpo di testa del bomber, che certo un gigante non è, bravo a prendere il tempo a due colossi come Barzagli e Benatia sono errori che non appartengono al dna dei bianconeri. Quello che fino ad un trimestre fa era il punto di forza della Juventus è diventato improvvisamente il tallone d’Achille di Madama? Non proprio. Le grane di Allegri non sono infatti circoscritte alla difesa.

Anche il modulo ha la sua (grossa) parte di responsabilità. Il banco di prova della Serie A ha ingenuamente convinto Massimiliano Allegri che il fisico della Juventus fosse adatto ad indossare un 4-2-3-1 che dopo aver retto il confronto con i resti del glorioso Barcellona e le velleità del giovane Monaco si è rivelato un clamoroso fake nella serata della moda di Cardiff. E che anche ieri sera ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza. In primis perché giocare con due soli centrocampisti, in particolare poi se uno è il poco avvezzo al sacrificio Pjanic, richiede una grande forma fisica, cosa di cui la Juve in questo momento difetta palesemente. Secondo perché quanto meno sarebbe opportuno schierare sugli esterni alti giocatori in grado di supportare adeguatamente la fase di ripiegamento. Ed in tal senso Mandzukic, per quanto sia uso al sacrificio, è un giocatore adattato e forse non propriamente adatto al ruolo. Terzo, perché il calcio in fin dei conti è una scienza abbastanza semplice fondata sull’incontrovertibile regola che le partite si vincono a centrocampo; perché è lì che si sbroglia la matassa e si costruisce la trama del gioco. È il centrocampo che determina gli equilibri di una squadra ed è il centrocampo che fornisce protezione alla difesa. Ergo, se Chiellini e compagnia hanno le loro colpe è anche per i demeriti di Pjanic, Khedira e di Massimiliano Allegri che piuttosto che schierarsi a tre con Marchisio, ha deciso di non arrendersi all’evidenza. Ci ha pensato Marotta, nel dopo partita, a correre ai ripari annunciando l’imminente arrivo di un centrocampista (probabilmente Matuidi).

Il centrocampo è stato invece il punto di forza di una Lazio che ha comunque nel complesso fornito una prestazione corale esaltante. Merito di Inzaghi che non può più considerarsi una sorpresa; perché orami, utilizzando uno slogan noto nella capitale, è una solida realtà. Senza Biglia, Keita e Felipe Anderson (a vario titolo) il tecnico biancoceleste ha saputo reinventare la Lazio puntando sulla qualità del collettivo piuttosto che sullo spunto personale. È così che Luis Alberto, protetto da Leiva e Parolo, ha illuminato per lunghi tratti le operazioni. Così come è con gli esterni puri, Lulic e Basta prima ed il devastante Lukaku poi (anche l’ingresso di Marusic è stato devastante ma per altri motivi) che Inzaghi ha creato costantemente superiorità a centrocampo, aggredendo la Juventus e consentendo al duo Milinkovic-Savic/Immobile (preziosissimo il lavoro di sfiancamento dei due senza palla) di sfruttare le loro doti migliori e tramortire la Juventus. Forse con due catalizzatori di palloni come Felipe Anderson e Keita in campo le cose non sarebbero andate nella stessa maniera. Così come se Inzaghi avesse affrontato con analogo impianto tattico anche la finale di Coppa Italia dello scorso maggio forse quella partita avrebbe potuto avere epilogo uguale a quella di ieri. O ancora, così come la sfida di ieri avrebbe potuto prendere una piega diversa se la zampata in avvio di un per il resto impalpabile ed irritante Cuadrado non avesse trovato sulla sua strada il mix di intuito e fortuna di Strakosha. Ma non è con le ipotesi che si fa la storia. La storia si fa con i fatti.

Ed i fatti raccontano che Inzaghi non è, come dice Lotito, Mago Merlino; ma di calcio sicuramente ne capisce. Ha capito dove deve giocare Milinkovic-Savic perché possa diventare un giocatore di caratura internazionale. Ha capito che Luis Alberto ha piedi educati e poca voglia di correre lungo i lati del campo. Studia gli avversari e cambia la muta a seconda delle situazioni rinnegando per principio l’ostinata ostinazione di certi presunti guru della panchina a rimanere sempre e comunque sia fedeli al proprio modulo. È conscio che la difesa biancoceleste ha una sola punta di diamante e tanti fieri scudieri e la sua prima preoccupazione è fornire protezione alla retroguardia senza rinunciare a proporre gioco e creare occasioni. Difficilmente ci si annoia guardando una partita della Lazio. A proposito, quella di ieri sera, nonostante una Juventus sotto tono, è stata una partita intensa ed a tratti spettacolare. Uno spot da mostrare a chi sostiene che il calcio italiano sia noioso.

Un piccolo salto indietro per la chiosa finale. La difesa della Lazio ha una sola punta di diamante dicevamo. Ovviamente stiamo parlando di De Vrij. L’olandese è un giocatore che farebbe la fortuna di qualsiasi squadra. A partire dalla Juventus. La situazione è nota: De Vrij è in scadenza di contratto, come lo era Biglia, come lo è Keita. Il rinnovo in questo caso non sembra utopia ma sarebbe opportuno per la Lazio chiudere alla svelta. Perché Biglia non è mai stato insostituibile. Keita è talentuoso ma sostituti su piazza se ne possono trovare. De Vrij invece è decisamente merce rara. Inzaghi capisce di calcio ma non ha la bacchetta magica. Meglio allora non chiedergli miracoli.