Sorridi, Manolo

Un ritratto inconsueto, e a suo modo rivelatore, di Manolo Gabbiadini emerge da un’intervista rilasciata a Radio Kiss Kiss alle porte della stagione 2015-16. Seduto su una panchina durante il ritiro a Dimaro, Manolo racconta se stesso e la squadra in cui si trova, tradendo a sua insaputa un impercettibile mondo fatto di gesti, parole, sguardi che rendono di riflesso il profilo calcistico più chiaro e comprensibile. Attraverso quel sottotesto rubato, tutti i tasselli si sono combinati in maniera omogenea, riducendo gli interrogativi su una carriera incostante, per certi versi criptica nel modo in cui ha preso forma.

Perché per capire a fondo il Gabbiadini calciatore è necessario addentrarsi nelle pieghe di un’emotività ambigua, apparentemente indecifrabile, che compone lo scheletro del Gabbiadini uomo.

UOMO DEI SUOI LUOGHI

Gabbiadini, piuttosto che uomo del suo tempo, è uomo dei suoi luoghi, riproposizione vivente della periferia bergamasca in cui è cresciuto. Nato il 26 novembre del 1991 a Calcinate, nel cuore della Pianura Padana, ha assorbito i canoni di un tessuto ombroso, fondato sulla strenua cultura del lavoro, in cui il modello dell’esperienza industriale finisce per condizionare la vita in ogni sua sfumatura. Un paradigma ferreo che fuoriesce dalla fabbrica e contamina le dinamiche più intime del contesto sociale. Vien da sé che ogni sfera affettiva, ogni rapporto, risenta di quel risoluto senso pratico che trasuda dai fumi neri degli stabilimenti. Lo stesso Manolo ha provato ad integrarsi attivamente in quel tessuto, lavorando come meccanico nell’officina dello zio a Bagnatica, a dieci minuti di distanza dalla sua Calcinate. Allora, appena sedicenne, aveva colto in pieno le regole di quel mondo. Gabbiadini era già uomo dei suoi luoghi, figlio di una terra operosa, umida, grigia. E quell’approccio remissivo, quell’umiltà calcificata nelle ossa, gli sono rimaste anche oggi, come parti essenziali di un patrimonio genetico che non può essere scalfito dal corso degli eventi.

Durante l’intervista rilasciata a Radio Kiss Kiss, gli spiragli di un variegato universo emotivo si aprivano a rilento, opportunamente ricuciti dalla tipica scorza con cui Gabbiadini si rende fruibile da un punto di vista mediatico. L’espressione monocorde, tendente ad uno stato depressivo, è la maschera che siamo abituati a vedere in ogni frangente della sua esperienza calcistica. Una rete straordinaria, un passaggio mal eseguito, una sostituzione incomprensibile: la reazione a qualsiasi evento è sempre la stessa, racchiusa in una mimica facciale che non lascia spazio all’immaginazione. Quasi che quell’imponente senso etico che si porta alla spalle ne condizioni gli istinti primordiali, premendo su ogni segmento del sistema nervoso. Un immobilismo emotivo dettato dalla necessità di mantenere un profilo incolore, che fugge dagli eccessi e abbraccia la mediocrità. C’è però una variabile che distorce il procedimento dell’equazione, riconducibile allo status che Gabbiadini (non) si è cucito addosso nel corso della sua carriera. Se nel compendio delle gestualità tutto rimanda al realismo del contesto di formazione, la collocazione tattica costituisce un interrogativo irrisolto. Cos’è oggi Manolo Gabbiadini? Un centravanti, una seconda punta o un esterno offensivo? Probabilmente è un po’ tutte e un po’ nessuna delle tre cose.

Un bravo meccanico conosce bene l’importanza degli ingranaggi. Sa combinarli, incastrarli tra loro, attraverso un procedimento metodico che si esaurisce nella realizzazione di un prodotto finale. E’ necessario equilibrio, bilanciamento affinché tutto funzioni. L’equivoco di Manolo sta tutto nell’incapacità di qualificarsi come uno strumento ben determinato, ma di riplasmarsi di volta in volta a seconda del sistema in cui viene inserito. Per riprendere il quesito precedente, è come se Manolo sapesse soltanto quello che non è. Ed è in questo senso che tradisce il contesto in cui è cresciuto, svincolandosi dalla logica industriale che consacra l’attitudine alla specializzazione come un valore supremo. Manolo è un ingranaggio che non si incastra, un pezzo di lusso che va contemplato ma che all’atto pratico risulta spesso poco funzionale. Lui è l’eccedenza in senso calcistico, in quella riluttanza a cucirsi addosso un’uniforme. E quel che non serve finisce dritto sullo scaffale a riempirsi di polvere. Così come Manolo è finito in panchina nel pieno del suo vigore. Anche se agli inizi della sua storia, il vento tirava nella direzione opposta.

L’ALBA DI GABBIADINI: DA ZINGONIA A BOLOGNA

Mentre la sorella Melania si andava affermando come una delle giocatrici più interessanti del panorama calcistico femminile, Manolo muoveva i suoi primi passi nel centro tecnico di Zingonia. Nel vivaio bergamasco l’hype intorno al dinoccolato attaccante di Calcinate crebbe a dismisura, tanto da tradursi nell’esordio in Serie A a diciotto anni in un match perso per 1-0 contro il Parma. Nel mezzo le esperienze al Palazzolo e al Montichiari gli servirono per affinare le qualità di un bagaglio tecnico in costante mutamento. La prima vera esperienza tra i grandi arrivò però nel 2010, in serie B col Cittadella.

La collocazione tattica del primo Gabbiadini non lasciava spazio a quei dubbi amletici che aleggiano attorno alla sua esperienza partenopea: Manolo era una seconda punta dalle verdi speranze, capace di ritagliarsi spazi funzionali grazie ai movimenti di rottura di un centravanti puro. Incapace di reggere l’urto con le difese avversarie, preferiva aggirarle partendo da una porzione decentrata piuttosto che fare a sportellate per accaparrarsi il dominio posizionale. Nella stagione col Cittadella il lavoro sporco toccava a Piovaccari – che peraltro chiuse l’annata con 23 reti, capocannoniere del campionato – Manolo gli ruotava attorno, adeguandosi agli spostamenti della retroguardia. Fu impiegato con continuità, tant’è che collezionò 27 presenze e 5 gol e fu inserito tra i 32 migliori giovani del campionato cadetto. L’anno successivo il rientro all’Atalanta si consolidò nonostante l’interessamento di numerosi club italiani e soprattutto europei – l’Amburgo su tutti – ma gli spazi concessi furono pochissimi. Unica grande soddisfazione il suo primo gol in Serie A, segnato il 25 marzo 2012, a 20 anni, nella partita contro il Bologna (2-0) disputata a Bergamo. Per il resto solita maschera di ferro, pronta ad occultare anche la più scottante delle emozioni.

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Nell’ultima settimana di mercato del 2012 la Juventus ne acquistò in compartecipazione il cartellino per 5,5 milioni di euro e lo girò in prestito al Bologna. Il fatto che fosse entrato a tutti gli effetti nell’orbita dei talenti di prospettiva del serbatoio bianconero costituiva una garanzia per il futuro. Le aspettative furono prontamente ripagate durante l’anno dell’effettiva consacrazione, e la duttilità tattica che sviluppò alla corte di Donandoni fu subito percepita come un raro pregio piuttosto che come l’incipit della sua ambiguità professionale. Gabbiadini inizialmente veniva inserito come punta di raccordo tra i reparti nel 4-3-1-2: agiva un po’ più avanti di Diamanti, schierato come trequartista, e qualche metro più indietro rispetto a Gilardino, chiamato a combinare il lavoro di finalizzazione a quello di creazione degli spazi, attraverso tagli e movimenti orientati a far collassare su di sé la difesa avversaria. Nella seconda parte di stagione l’impiego da esterno offensivo nel 4-2-3-1 ne esaltò tutte le doti atletiche e quell’inclinazione al controllo della palla in corsa che pare quasi incompatibile con la sua stazza. Giocò anche da prima punta, interpretando il ruolo in maniera decisamente diversa da quanto era in grado di fare Gilardino, venendo utilizzato spesso a partita in corso, quando le difese si allentano e c’è maggiore spazio per le accelerazioni. Gli interrogativi su cosa sia Gabbiadini oggi nascono lì, nella parentesi al Bologna, laddove il trasformismo e la rinuncia alla specializzazione alimentavano uno status di indecisione crescente.

LO ZENIT DI GABBIADINI: METAMORFOSI DORIANE

Nell’estate del 2013 la Juventus risolse la comproprietà con l’Atalanta a proprio favore, rigirando Gabbiadini alla Samp: stesso tipo di compartecipazione, stesso conguaglio economico di 5,5 milioni. La reiterazione della formula, pensata per consentire al ragazzo di trascorrere un altro anno a farsi le ossa lontano dalla casa madre, mostrava adesso tutto lo scetticismo bianconero sulle effettive capacità del nativo di Calcinate. Manolo era atteso ad un altro check point, il giudizio sul suo futuro veniva rimandato con la consapevolezza di entrambe le parti. La prima porzione del campionato giocò da seconda punta nel 3-5-2 disegnato da Delio Rossi: il compagno di reparto questa volta era Eder, un centravanti atipico, lontano anni luce per caratteristiche e approccio rispetto agli attaccanti con cui era abituato ad interagire. A non funzionare non era tanto l’intesa lì davanti, quanto i meccanismi globali di una squadra che partì con il piede sbagliato senza riuscire poi a riprendersi. Alla dodicesima giornata dunque via Rossi, dentro Mihajlovic, e una nuova metamorfosi nell’evoluzione del “Gabbia” prese campo: il modulo adottato era il 4-2-3-1, lo stesso con cui sul calare dell’esperienza bolognese si era riscoperto esterno. Miha lo dirottò proprio nel terzetto di uomini offensivi a supporto della punta, incastrandolo a destra, sulla fascia opposta rispetto a quella in cui aveva giocato sotto la guida di Donadoni. La licenza tattica era ben chiara: partire largo per accentrarsi fino al limite dell’area tenendo d’occhio i tagli e le sovrapposizioni dei compagni. Quella era anche la posizione ideale per un mancino come Manolo per calciare in porta, soluzione peraltro eseguita con una pulizia tecnica degna dei migliori interpreti, tanto da consolidarsi nel tempo come un pezzo distintivo del suo repertorio: la traiettoria impressa al pallone non risente mai granché dell’effetto, come di solito avviene, quanto della potenza e della precisione. Lo si capisce dal modo in cui il pallone fende la rete senza creare alcuna frizione, in un contatto forte, secco, deciso.

A Genova, sponda blu-cerchiata, segnò 8 gol in 34 presenze durante la sua prima stagione. Un bottino adeguato per una mezza punta, o almeno tale secondo il presidente Ferrero che decise di riscattarlo dalla Juventus, liberando Manolo dai vincoli di un rapporto ingombrante, mai pienamente sbocciato. Nel campionato successivo Gabbiadini si assestò su ritmi ancora più elevati, raggiungendo 7 marcature nell’anno solare. Fu allora che il Napoli bussò alla porta, acquistandolo per 12,5 milioni nella sessione invernale del 2015.

IL TRAMONTO DI GABBIANI: IL LASCITO DI GONZALO E L’OMBRA DI ARKADIUSZ

Gli svariati modi d’essere di Gabbiadini erano tutti intriganti. Un giocatore appena ventitreenne, in grado di occupare ogni posizione dell’attacco, appariva al Napoli un cavallo vincente su cui puntare. A generare un certo alone di scetticismo fu però il contesto in cui maturò quell’acquisto. Arrivò alle pendici del Vesuvio come il tassello multiforme in grado di completare gli ingranaggi offensivi dello scacchiere di Benitez: un po’ centravanti, pronto a far rifiatare Higuain, un po’ seconda punta, capace di offrire una soluzione tattica alternativa al 4-2-3-1, e un po’ esterno offensivo, chiamato a ritagliarsi un posto da valida alternativa a Callejón su quella fascia destra in cui aveva maturato l’ultima tacca del suo upgrade calcistico. Gabbiadini si legava al Napoli in un compromesso colmo di ambiguità, in cui era chiaro fin dal principio che tutta quella forza latente, priva di una forma a tracciarne i confini, rischiava di prosciugarsi nelle infinite crepe delle possibilità. Se la mezza stagione con Benitez mise in luce il lato più dolce di Gabbiadini, in quel suo modo caotico di emergere nella sperimentazione, il rigido inquadramento tattico proposto da Sarri lo relegò in un limbo fatto di angoscianti interrogativi.

L’intervista rilasciata a Radio Kiss Kiss si colloca esattamente all’alba della stagione 2015-16, quella in cui l’homo novus Sarri veniva chiamato per restituire un’identità al Napoli, aprendo di fatto un ciclo di rifondazione. Nel corso della conversazione Manolo ribadisce di sentirsi una prima punta e che la sua migliore collocazione in campo è quanto più possibile vicino alla porta. Poco dopo tesse le lodi di Gonzalo Higuain, definendolo un campione intoccabile, dal cui rendimento sarebbe passato gran parte del futuro del Napoli. Due dichiarazioni genuine, espresse senza alcuna malizia, nelle quali risiede però una contraddizione evidente. Attraverso quell’intervista è come se Manolo avesse di fatto legittimato quegli interminabili mesi di panchina, all’ombra del Pipita e della sua stagione più prolifica.

Il pragmatismo di Sarri, e quell’irreprensibile etica del lavoro su cui ha fondato l’ascesa professionale, si pongono in perfetta sintonia con i codici della terra in cui Manolo è cresciuto. E proprio quel sistema di valori condiviso, in cui la specializzazione assume un ruolo fondamentale, ha paradossalmente segnato il progressivo arenarsi di una delle più limpide promesse del calcio italiano. Perché in una finissima tensione di metodo e disciplina, quel modo quasi artistico, d’essere un po’ tutto e un po’ niente, è una deviazione difficile da integrare. Con la partenza di Higuain, poi, il paradosso si è fatto ancora più corposo. Manolo è stato subito investito come l’erede naturale dell’uomo capace di frantumare il record di Nordahl, il nuovo centravanti chiamato a raccogliere un lascito ingombrante per chiunque. Al tempo stesso però il Napoli ha acquistato Arkadiusz Milik per 32 milioni di euro, aprendo di fatto un dualismo inevitabile nell’apocalittico scenario post-Higuain. Partito avanti nelle gerarchie, Manolo si è visto soffiare il posto già alla seconda giornata, quando Arkadiusz ha realizzato una doppietta nella vittoria per 4-2 contro il Milan.

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Il punto emotivamente più lacerante della sua esperienza al Napoli si è consumato giusto un mese fa, durante un Napoli-Bologna dello scorso 17 settembre: per 63 minuti i piedi di Manolo hanno parlato la stessa lingua del suo viso monocorde, in una sincronia malinconica fatta di ombre e di silenzi. Sarri lo ha richiamato in panchina, lanciando al suo posto Milik, al quale sono bastati undici minuti per segnare una doppietta e ribaltare praticamente da solo le sorti della partita. Neanche a dirlo la faccia di Manolo è rimasta sempre la stessa, un blocco granitico al cui interno fiotti di magma si mescolavano furiosamente. E da lì un nuovo abisso, fatto di panchine e di esclusioni.

La rottura del legamento crociato occorsa a Milik durante il match di qualificazione ai mondiali con la sua Polonia ha riaperto nuovi scenari. La reazione di Manolo non ha lasciato campo, come prevedibile, a ingestibili picchi emotivi: un dispiacere sommesso nei confronti di un compagno, seppur antagonista da un punto di vista professionale, unito alla tenue consapevolezza di dover gestire un’occasione irripetibile. Per i prossimi mesi, in attesa del recupero di Milik, toccherà a Gabbiadini guidare il centro dell’attacco partenopeo. Manolo dovrà configurarsi per la prima volta come uno strumento ben calibrato, capace di aderire ad un sistema che richiede puntualità e precisione. Dovrà riplasmarsi e presentare la sua versione più consona, dimostrando a se stesso di non essere un pezzo che va contemplato, ma un ingranaggio che si incastra, fluido e funzionale nei meccanismi.

E che per una volta quella maschera impermeabile ai colori possa incrinarsi in prossimità degli zigomi, anche soltanto accennando la parvenza di un sorriso. Al di fuori del limbo, scegliendo una delle infinite possibilità, che possa dirsi finalmente di esistere.