Scoprirsi numero nove: il ritorno del centravanti old school

Guardano il campo da una prospettiva annichilente. Sono soli, in prima linea, costretti a districarsi in una selva di tagliagole e gambe nerborute. Ma non si lasciano scoraggiare, perché sono abituati alla solitudine e al peso schiacciante delle responsabilità. Sono la forza e l’eleganza, l’istinto e la ponderazione. Esaltano il compromesso, consacrano l’eclettismo. Sono i 5 migliori centravanti della Serie A, raccontati in un breve compendio: Bacca, Icardi, Dzeko (sì, Dzeko), Milik e Higuain messi a nudo, nel loro rapporto con gli allenatori, la squadra e l’ambiente in cui vivono.

CARLOS BACCA, SEGNARE CONTROCORRENTE

Montella e Bacca non si piacciono affatto. Anzi , sono tanto diversi quasi da odiarsi. Montella profetizza un calcio esteticamente raffinato, basato sulla partecipazione totale. Ama la costruzione, l’intesa e la corrispondenza. Nella sua idea di gioco, la squadra deve arrivare alla porta attraverso il controllo degli spazi e dei tempi. Un controllo mentale, ancor prima che fisico, che si costruisce attraverso la gestione consapevole del pallone. La priorità del suo sistema è la realizzazione di una fitta trama di connessioni. E quanto più la rete è espansa e compatta, tanto più la fluidità generata si declina nel controllo. Bacca è l’antagonista di un sistema del genere. Bacca destruttura il gioco, assentandosi per lunghi periodi sia in fase offensiva che difensiva. In quella insopportabile tendenza al distacco è come se si creasse una bolla impermeabile e refrattaria a qualsiasi catechizzazione. Non si sacrifica, non gioca per nessuno. Rifiuta ogni credo, assecondando soltanto un istinto ancestrale. Bacca è immobilismo puro per gran parte dei novanta minuti, almeno finché qualcosa non si accende. Parte un lampo che scardina l’ordinarietà, e all’improvviso Carlos visualizza il suo varco spazio-temporale, quello che si riconcilia con l’istinto. Ci si butta a capo chino, con ferocia e senza elucubrazioni mentali. E il risultato, una volta su due, è una rete che oscilla gonfiandosi dall’interno.

Milan's Carlos Bacca jubilates after scoring the goal during the Italian Serie A soccer match AC Milan vs US Palermo at Giuseppe Meazza stadium in Milan, Italy, 19 September 2015. ANSA/MATTEO BAZZI

Montella e Bacca pur non piacendosi affatto sono maledettamente funzionali l’uno all’altro. Il sistema che Montella sta cercando di mettere a punto necessita di un lento percorso di assimilazione, e Bacca ne rappresenta l’anello più debole. Anzi, a dirla tutta, Bacca è totalmente scorporato dal progetto che alberga nella testa di Montella. Eppure l’Aeroplanino non può farne a meno, perché si tratta di un’imperfezione straordinariamente produttiva. Bacca colma i vuoti della metamorfosi, ricuce le amnesie di un meccanismo in via di sviluppo, pur muovendosi consapevolmente controcorrente. Il suo successo è direttamente proporzionale all’incompiutezza del sistema: se il Milan pensato da Montella funzionasse a pieno regime, Bacca sarebbe superfluo, anzi perfino dannoso. Ad oggi però riempie alla perfezione quell’abisso tra pensiero e realtà. Per Montella si tratta del farmaco più indicato per accompagnare una transizione dolorosa. E del resto se un tiro ogni due va dentro, c’è poco da restare imbronciati.

LE DUE FACCE DI MAURO ICARDI

L’esuberanza a doppio taglio di Icardi è il turning point della stagione nerazzurra di Frank de Boer. Eccedente fuori dal campo, in una vita votata all’ostentazione. Straripante nel rettangolo verde, capace di ispirare il cambiamento. Sì, perché l’aria che si respira adesso ad Appiano è decisamente più leggera rispetto a quella di appena dieci giorni fa. Cinque centri in tre giornate sono il passepartout per un rilancio di ambizioni, personali e collettive. Il grande merito di Maurito non è tanto quello di aver smosso la classifica scardinando tre differenti difese  una dopo l’altra– lo scalpo juventino resta il più prestigioso – ma quello di aver accelerato il percorso di transizione di un’Inter costretta a stravolgere ogni caposaldo ad un palmo dall’avvio. L’eccentricità iniziale, sostenuta da una discutibile seppur necessaria fase di sperimentazione, ha lasciato spazio all’ordinarietà di un’equazione in cui ogni incognita ha adesso un valore ben determinato. E se Bacca si esalta nella svalutazione di un sistema incompiuto, Icardi brilla come il diamante più prezioso di un diadema che incanta per eleganza e sobrietà. La maturazione verso la quale sta andando incontro abbraccia ogni sfaccettatura del suo modo di stare in campo. Maurito concilia lo spettro delle qualità tipiche dell’attaccante d’area con la partecipazione ai meccanismi globali della squadra. Pur essendo un centravanti –nell’accezione più pura ed egoistica del termine – si subordina altruisticamente alle esigenze del gruppo. Viene da sé che quello tra Icardi e de Boer è un rapporto che si pone al di sopra dell’utilità reciproca, consacrandosi su un piano di totale imprescindibilità: la legittimazione del tecnico passa dai gol di Icardi, le marcature di Maurito certificano la validità delle idee di de Boer. E’ come se a dare stabilità ad un edificio non fossero le fondamenta, ma per una volta, inspiegabilmente, il suo piano più alto.

EDIN DZEKO, OLTRE OGNI ERRORE

Dzeko a Roma vive una situazione complessa, forse la più tormentata da un punto di vista emotivo. Il legame con Spalletti è fatto di lacerazioni profonde, suturate dalla speranza e ri-squarciate da ogni errore. Un ciclo estenuante che si alimenta da più di un anno e che probabilmente non troverà mai fine. Quello sciame di perplessità e di mugugni che aleggiano attorno al bosniaco si dileguano dopo una bella prestazione alla stessa velocità con cui si ripresentano appena le cose iniziano a girare di nuovo nel verso sbagliato. La verità è che Dzeko, a dispetto di una fisionomia che lascia intendere il contrario, è meno attaccante di quanto si possa pensare. Dzeko non è un predatore, non possiede quell’istinto che consente di spaccare gli equilibri, né quella brama viscerale di far gol. Dzeko è una pedina del sistema, fin troppo integrata nel sistema. E’ vittima di un’interconnessione strutturale con il resto della squadra, ne subisce il rendimento adagiandosi sull’inerzia proposta. E’ perennemente subordinato alle circostanze e pertanto, in questo rapporto di dipendenza e di rinuncia all’autonomia, non è in grado di risolvere le partite da solo. La sua capacità di incidere si lega al funzionamento della macchina, e se la macchina s’inceppa, Dzeko si arresta insieme ad essa. Spalletti ha provato a rinunciarci ma non riesce proprio a farne a meno. E legittimamente. Perché indipendentemente dal bottino di reti e dall’incapacità di trovare da solo la giocata vincente, la mole di gioco prodotta dal bosniaco è sempre impressionante. Dall’inizio della stagione dietro ogni azione pericolosa della Roma c’è praticamente il suo zampino. Un movimento, un taglio, una sponda: tutti elementi attraverso i quali si costruisce l’imprescindibilità. E i gol, anche per un attaccante, possono per una volta passare in secondo piano.

ARKADIUSZ MILIK, VIVERE ALL’OMBRA DI UN FANTASMA

Sarri e Milik si rispettano, nulla di più. L’autenticità del loro rapporto è contaminata da una presenza che seppur intangibile, risulta oltremodo ingombrante. Sarri è il padre che deve occuparsi della crescita di un figlio, convivendo con la terribile idea di aver perso il primogenito. Quello bello, affascinante, intelligente, di cui tutti s’innamorano. Un buon padre sa che non bisogna fare paragoni, ma spesso l’etica sconsiglia quello che la natura umana impone. E così il fantasma di Higuain torna sempre in mente, anche se contro volontà. Sarri ha provato a smorzare l’opprimente pressione, ribadendo più volte come i gol del partente saranno equamente distribuiti tra tutti i terminali offensivi. Ma alla fine è Arkadiusz a scendere in campo al centro dell’attacco. A doversi muovere in quegli spazi angusti in cui le scie fantasmatiche di Higuain mettono più paura. L’eccezionale maturità di Milik gli ha consentito di allontanarsi dall’orlo di un inevitabile precipizio. Arkadiusz non ha assecondato neanche per un secondo le logiche della comparazione, evitando di apparire già sconfitto in partenza. Ha capito quanto le chances di successo fossero legate alla capacità di svincolarsi dal pregiudizio e ha intrapreso un sentiero autonomo, battuto con la fatica di un lavoro estenuante e tracciato sulla scia delle proprie ambizioni. I paragoni con i fantasmi sono deturpanti. Altrettanto deturpante è rinnegare il passato. Milik ha soltanto raggiunto un finissimo compromesso emotivo: vuole muoversi con indipendenza e freddezza in un ambiente dannatamente viscerale. Costruendo con i suoi piedi un ponte tra passato e futuro. Un ponte che è suo e di nessun altro.

GONZALO HIGUAIN, L’ARTE DI PREDARE

Quattro gol in appena due partite giocate da titolare sono le credenziali che in maniera del tutto ridondante certificano il valore di Gonzalo Higuain. A sorprendere è la rapidità con cui si è integrato in un sistema già consolidato, passando da una squadra in cui tutti giocavano per lui ad una che preesiste alla vena realizzativa del suo centravanti. E’ un’arma che sovrabbonda in un arsenale già di per sé letale. Ma se la ridondanza provoca un senso di nausea, Higuain no. Perché l’infallibilità dei suoi gesti è un’ode all’arte predatoria. In pochi posseggono quella sua stessa capacità di sentire istantaneamente la porta. Il Pipita la annusa, la scannerizza nelle sinapsi producendo una mappatura infallibile. E’ uno di quei giocatori che restituisce al fruitore del gioco un costante senso di pericolo. Perché quando prende la palla, sai per certo che di lì a poco farà del male. E’ pronto, incapace di provare il minimo senso di esitazione.

higuain

L’intenzione manifestata da Allegri è quella di inserirlo gradualmente, facendogli cogliere nel dettaglio le sfumature di un meccanismo fisiologicamente improntato al dominio. Probabilmente anche in maniera esagerata, dato che la scelta di inserirlo a San Siro soltanto ad una ventina di minuti dal termine è parsa più una decisione scellerata che un salubre tentativo di gestirne l’ambientamento. L’impressione è che Higuain sia destinato a dominare in Italia esattamente come è stato abituato a fare nelle ultime stagioni. In un contesto differente, con le dovute eccezioni, ma con esiti non molto lontani. L’incognita permane sul versante europeo, il nuovo sentiero di caccia tracciato dalla dirigenza bianconera. Ma le perplessità si legano più ad un fatto psicologico che alle reali capacità. Si tratta dell’unico grande impasse del Pipita. Superarlo significa fare la felicità di tutti. E accedere definitivamente a quella cerchia di aristocratici del gioco che il calcio non soltanto lo praticano, ma lo rivoluzionano.