Leonardo Bonucci ha la bocca pulita

Istruzioni per l’uso: riempire la cavità orale con un prodotto igienizzante e, dilatando ad intermittenza le guance, riprodurre al suo interno un deciso moto ondoso; tratteggiare figurativamente con l’indice un cerchio in prossimità delle labbra e ripetere l’operazione per una quindicina di secondi. Risciacquare infine la bocca con acqua corrente. Quando stasera vi laverete i denti davanti ad uno specchio pieno di macchie di calcare, pensate a Leonardo Bonucci.

Il modo in cui Bonucci esulta dopo un gol racchiude una forza espressiva difficilmente equivocabile: l’immagine è nitida (“sciacquatevi la bocca quando parlate di me”) quanto le reazioni che genera in chi la vede. C’è chi vorrebbe piantargli le nocche sulle gengive e chi stringerlo in un profondo abbraccio; chi lo odia e chi lo ama, senza mezze misure. O tutto o niente, o bianco o nero. Beh, forse proprio quando ci sono i colori di mezzo, un’eccezione la si potrebbe pur fare. D’altra parte li porta addosso quei colori, l’uno accanto all’altro, ogni domenica. E quei colori, quelli della sua Juventus, sono quanto di più simile a Bonucci per la disgiunzione che imprimono a forza sull’immaginario collettivo: “Juve merda, Bonucci sopravvalutato”; “Juve e basta, il resto merda, Bonucci il miglior centrale del mondo”. Vanno di pari passo, senza mai toccarsi. In fondo sono loro stessi a richiederlo.

L’approccio tout court è diventato una costante della sua esistenza all’età di sedici anni quando fu invitato, almeno per una volta, a scendere a compromessi. Bonucci, centrocampista dinoccolato della Viterbese, da lì in avanti avrebbe dovuto giocare in difesa per volere di Carlo Perrone, suo allenatore tra gli allievi nazionali. Un’intuizione che adesso è facile definire geniale, ma che all’epoca non sembrava dovesse pagare chissà quali profitti. Leonardo era uno dei quei ragazzini che ci sanno fare col pallone tra i piedi, come centinaia ne passano ogni anno sui campi della periferia italiana. Un provino con l’Inter, ottenuto nel 2005, sembrava già un successo notevole; vincere la Coppa Italia Primavera con i nerazzurri l’anno seguente, un bonus inaspettato. Esordisce in Serie A il 16 maggio del 2006, all’ultimo minuto dell’ultima partita della stagione contro il Cagliari, entrando a far parte di quella che poi sarebbe diventata la rosa ufficiale dei campioni d’Italia dopo gli effetti delle sentenze Calciopoli. Continua a far bene nella Primavera dell’Inter aggiudicandosi la vittoria del campionato: Balotelli e Biabiany sono le stelle, lui un gregario diligente. Bonucci non ha proprio l’aria del predestinato.

Il dislivello di status tra il Leo ragazzo e il Leo uomo è un salto nel Grand Canyon. Prima di diventare il difensore preferito di Guardiola (anche qui un altro dato che divide estimatori e detrattori di Bonucci, considerando i risultati che il modello catalano sta producendo lontano dalla terra natia) ne è passata di acqua sotto i ponti. Una gavetta proletaria nella serie cadetta con le maglie di Treviso e Pisa e il debutto, questa volta da titolare in A, con il Bari. E’ proprio a Pisa, sotto la guida di Giampiero Ventura, che la predisposizione alla regia di Bonucci trova una sua forma, seppur grezza: i difensori sono il primo motore dell’attacco, devono saper giocare il pallone e offrire sbocchi arretrati alla manovra. Un centrocampista che per caso si ritrova a fare il difensore, in quel contesto, è una manna dal cielo.

Con la retrocessione del Pisa, Bonucci torna all’Inter ma è ritenuto ancora troppo acerbo. Passa così al Bari, transitando dal Genoa, nell’ambito dell’operazione che porterà Thiago Motta e Milito a vestire nerazzurro. Con i galletti forma una delle coppie difensive più interessanti del panorama italiano, lui e Andrea Ranocchia, di cui però è l’elemento più mediaticamente più debole. I riflettori infatti sono tutti puntati sul suo compagno di reparto, ritenuto dalla critica più futuribile e perfettamente in linea con la tradizione dei difensori all’italiana. Bonucci vive di ombre e nel silenzio si ritaglia una voce. Continua a giocare il pallone con spavalderia, prendendosi rischi e fischi ampiamente tollerati dalle idee di Ventura, nel frattempo trasferitosi al Bari. E intanto Leo, quell’intoccabile tradizione, la (r)innova.

Se Ranocchia è solido, statuario, efficace, Bonucci è una Ferrari che sfreccia su un sentiero sterrato: il testacoda è sempre dietro l’angolo con quelle giocate ad effetto, in un perenne limbo tra il coraggio e l’incoscienza. La stampa conia il termine “bonucciate” in riferimento a agli errori banali che Leo semina attorno a sé. Eccessiva sicurezza e scarsa concentrazione, cose che non ti puoi proprio permettere quando provi a dribblare l’attaccante con il vuoto alle tue spalle. I passaggi sbagliati sono l’altra faccia della luna perché il manifesto rivoluzionario che si lega al gioco di Bonucci fa gola a tanti. Leadership, carisma e tensione agonistica da cannibale: tutti aspetti di una mentalità vincente, quella che serve alla Juventus per una rifondazione formale e sostanziale che cancelli l’onta di Calciopoli. Il 1° luglio 2010 Leo diventa un nuovo giocatore bianconero. L’intuizione, anche qui, è corretta. Alla lunga però, perché al primo anno a Torino nulla va per il verso giusto.

Con Delneri in panchina, Bonucci è vittima di un fraintendimento tattico: l’impronta difensivista del tecnico friulano finisce per occultarne i pregi ed evidenziarne i difetti. I sentimenti della curva si dividono tra chi nelle avversità ne ha compreso il genio e chi nelle rare prestazioni positive vede soltanto delle parentesi d’astinenza dalle “bonucciate”. Antonio Conte, arrivato alla Juve nel 2011, s’iscrive al primo partito, e dopo un lento processo di trasformazione avviato da Perrone e proseguito da Ventura, ultima la metamorfosi di Leonardo Bonucci. L’ultimo stadio è quello della “B” centrale della “BBC”, il trittico di difensori nel 3-5-2 che farà le fortune della Juve nel quinquennio a venire: Bonucci incarna l’evoluzione della Salida Lavolpiana (il centrocampista che si abbassa tra i due centrali per favorire la manovra: Rafa Marquez docet), e funge da alter-ego di Pirlo, posizionato solo una ventina di metri più indietro. Ai suoi lati gli scagnozzi che fanno il lavoro sporco, Barzagli e Chiellini, portatori sani di cattive maniere e garanti dell’equilibrio che consente ai piedi di Bonucci di cantare.

Da quel momento tanti sorrisi, trofei, rivincite. Il lemma “bonucciata” scompare lentamente dai dizionari configurandosi come un ricordo ingiallito, di quelli che tiri fuori alla prima occasione buona, sì, ci rimugini un po’ su, ma in fondo allontani senza dare troppo peso. C’è il lustro di scudetti, ci sono i record riscritti, le delusioni nelle notti di Champions e l’azzurro della nazionale che codardamente leviga le differenze. Lì sì tutti pronti ad abbracciarsi, estimatori e detrattori sullo stesso carro. Bonucci però non dimentica chi sostiene che il suo successo è il casuale riflesso di un sistema vincente.

Dietro quell’esultanza così irriverente non può che nascondersi un tormento. Quando Bonucci invita il mondo intero a “sciacquarsi la bocca” lo fa perché incastonato tra la suola degli scarpini e la pianta del piede c’è un sassolino che tagliuzza, comprime, lacera. Bonucci sa di non essere un giocatore amato da tutti, uno di quelli che si acclama a prescindere da quello che fa e che dice. Sente l’odio di chi non sta al suo fianco. I pregiudizi, i giudizi avventati, se li cerca con quel suo modo di parlare così simile ai suoi piedi: perennemente limpido, mostrando amore a chi lo ama e rancore a chi lo detesta. C’è linearità nella testa di Bonucci. Ora, uno così potrebbe nascondersi, fuggire dalle luci, tornare nell’ombra da cui è venuto. Ma Bonucci non si tira indietro perché vuole dimostrare a quella miscredente parte di mondo che gli va addosso, che si sbaglia.

La prima della BBC, e del nuovo mindset di Bonucci, è andata in scena il 29 novembre 2011 contro un Napoli profondamente diverso da quello che la Juve affronterà domenica sera al San Paolo. Sono passati quasi sei anni da quella data, ma a dispetto del tempo (e di un ulteriore upgrade nella fisionomia di Leo, ora perno nella difesa a quattro di Allegri) le gerarchie sono rimaste immutate: la Juve ha costruito un ciclo vincente facendo leva sulla forza di una retroguardia invidiata da mezza Europa, di cui Bonucci è il pezzo più pregiato. Anche lui, se non si fosse capito, è profondamente cambiato da quel pirotecnico 3-3 al San Paolo in cui per due volte si fece scappare Pandev. Napoli-Juventus sarà sì la sfida di Gonzalo Higuain, il traditore che torna nel focolaio domestico, ma anche la ricorrenza di un particolare modo d’esistere di Bonucci: quello dalla mentalità vincente, che pensa e gioca fuori dagli schemi in una tensione diretta tra la testa e i piedi. Senza remore o filtri del caso. Bonucci è questo, prendere o lasciare. E se non vi rimangerete l’odio che nutrite nei suoi confronti, beh, lo farà lui per voi. Sciabordio del collutorio tra i denti e risciacquo con acqua corrente. Bocca pulita, risultato garantito.