Le lunghe estati caldissime di Mino Raiola

Chissà cosa avrebbe pensato Cesare Lombroso, padre dell’antropologia criminale, se Mino Raiola fosse stato una delle tante cavie su cui mettere a punto le proprie teorie. Il naso gonfio come un palla da baseball, le gote e la mascella sporgenti, il petto pianeggiante come una radura che fa da anticamera a quell’immensa collina che è la sua pancia. Tratti fisici che fanno il paio al modo in cui il corpo si esprime. Un’esegesi della volgarità, sfrontatezza e totale assenza di self control, quanto meno apparente. Probabilmente Lombroso, che dalla fisionomia di un individuo provava a scorgerne la psiche, avrebbe avuto qualche difficoltà con Mino Raiola: un uomo il cui dire e fare sono in logica contraddizione con ciò che sarebbe lecito attendersi.

Il punto è che, nel caso di chi è maestro nella fredda arte delle trattative, è difficile capire dove finisca la maschera e dove inizi la persona. Immerso com’è nel vorticoso sistema di mind games che la professione richiede, probabilmente si sono fuse l’un l’altra come scorie di un pragmatismo che non ammette elucubrazioni. Ricostruire il profilo psicologico di Mino Raiola, se vogliamo, è un’operazione ancora più complessa. Noi ci abbiamo provato ripercorrendo alcuni episodi della sua carriera.

Gli inizi

Chiamatela spigliatezza, o “arte dell’arrangiarsi”, se preferite. Fatto sta che quella quota di meridionalità in Mino, che da Nocera Inferiore si è trasferito ad Haarlem, quindici chilometri da Amsterdam, pochi mesi dopo la sua nascita, sembra più un fattore genetico che ambientale. Paninoteca, pizzeria, ristorante di classe: l’attività di famiglia cresce nel solco delle sue ambizioni. E’ proprio tra piatti e tavolate – il pomodoro San Marzano come simbolo del made in Italy – che Mino scopre la sua vera vocazione. Rivendica le sue origini tra i ricchi business men olandesi, li affabula facendo da ponte tra due diverse culture. Mino risolve i loro problemi senza scadere nel servilismo, diventando loro pari, un Mister Wolf cui basta alzare la cornetta per rendere lindo anche il più sporco dei tuguri.

Come ogni venerdì sera si presenta a cena il Presidente dell’Haarlem, la squadra più antica d’Olanda. «Non capisci un cazzo di calcio» sentenzia Mino. «Provaci tu» ribatte l’altro. Altro giro altra scalata: prima una breve (improbabile) parentesi nel calcio giocato, poi allenatore del settore giovanile, e infine direttore sportivo. Gli antichi romani parlavano di cursus honorum per indicare l’impianto verticistico di uffici e cariche pubbliche che un aspirante politico doveva ricoprire nell’arco della sua carriera. Nel caso di Mino, il concetto di potere è leggermente diverso: non un’ascesa ma un’espansione. Le mani sono protese verso i lati e non verso l’alto, come tentacoli che si allungano orizzontalmente.

Mino, che nell’antica Roma sarebbe stato homo novus – detto in soldoni: venuto fuori dal nulla – asseconda la brama di potere cucendosi addosso una carica su misura: è presto una sorta di mediatore tra le società e i giocatori olandesi, dei quali diventa unico rappresentante grazie ad un accordo col sindacato. Nel giro di poco tempo l’esportazione di calciatori orange nel mondo passerà interamente dalle sue mani.

Un’operazione non semplice visto che prima di lui il monopolio del mercato olandese apparteneva a imprenditori del calibro di Coster Cor e Apollonius Konijnenburg. Erano loro, insieme all’ex Ajax Piet Keizer, che mediante la società Interpro speculavano sulle transazioni estere con il benestare della stessa Ajax che, forte di parametri nazionali bassissimi, si accaparrava i migliori talenti prima di rivenderli in Europa. Qui l’intuizione di Raiola: interrompere il circuito grazie alle sue conoscenze col calcio italiano (propose addirittura al Presidente del Napoli Ferlaino di acquistare l’Haarlem, trattativa poi sfumata) e porsi come intermediario alternativo.

Tra il ’92 e il 93’ fa arrivare in Italia Bryan Roy, al Foggia, e la coppia Dennis Bergkamp e Wim Jonk all’Inter, questi ultimi due venduti per 25 miliardi di lire dopo che il Napoli ne aveva offerti 28 solo per il primo. La strategia vincente è semplice: contenere i prezzi dei trasferimenti (grazie alla posizione di dominio assunta in Olanda) e indurre le società acquirenti a reinvestire, sulla base di quanto risparmiato, sul monte ingaggio dei propri assistiti così da ricavare una cospicua percentuali sugli stipendi. Stesso canovaccio per l’arrivo di Marciano Vink al Genoa, pagato 2 miliardi a fronte di un’iniziale offerta di 10, con l’impegno assunto dal Presidente Spinelli di firmargli il contratto più alto di tutta la squadra. A seguire gira Kreek al Padova e Nedved alla Lazio, personalissima scoperta di Raiola in Repubblica Ceca, nonché giocatore più pagato sia alla Lazio, prima, che alla Juventus, dopo.

Magnifico ciccione idiota

La brevità non è sempre sinonimo di incuria, anzi. L’epiteto in questione, di rara potenza espressiva, è tratto dalla biografia di Zlatan Ibrahimovic, il pezzo pregiato della collezione di Raiola, la cui carriera, senza Mino, probabilmente non sarebbe stata la stessa. “Ciccione” sta al centro, e forse è il tratto più identificativo. Ai lati due aggettivi discordanti: la tensione positiva di “magnifico” però sembra sovrastare quella negativa di ”idiota”. Mino non è un idiota, Zlatan lo sa. In quell’aggettivo magari si è rivisto lui stesso nel momento in cui Mino gli ha cambiato la vita.

«Tu ti credi tanto figo, eh? Credi di potermi impressionare con il tuo orologio e la tua Porsche, ma non è così. Io trovo che siano tutte cazzate. Vuoi diventare il migliore del mondo, oppure quello che guadagna di più?»
«Sì, il migliore del mondo.»

«Allora bene, perché se diventi il migliore del mondo poi arriverà tutto il resto, ma se insegui solo il denaro allora non otterrai mai niente, capisci? Dovrai vendere tutte le tue macchine, tutti i tuoi orologi e cominciare ad allenarti tre volte più duramente, perché adesso la tua statistica fa schifo.»

Questa conversazione, il primo approccio tra Ibra e Raiola, è degna del teatro dell’assurdo. La forza dei mal di pancia con cui Zlatan si è reso famoso è la resa sintomatica di una precisa strategia mercantile con cui Mino è diventato quello che è: dissimulare malessere per arrivare al benessere, fare i capricci per far lievitare gli zeri sul conto in banca. Zlatan è la merce più preziosa di Raiola, non soltanto per il fatturato sul campo, ma per quell’attitudine a tenere tutti per le palle. Sono uno lo specchio dell’altro, per irriverenza, cafonaggine e ambizioni. In questo dialogo la dialettica del denaro passa però in secondo piano: Mino mescola le carte e tira fuori una ramanzina degna della più inflazionata retorica cinematografica sportiva. Quell’”idiota” affibbiato da Zlatan sembra più un verso d’amore: come farebbe un bambino con la compagna più carina dell’asilo, la disprezza perché ne è attratto.

Dietro la spavalderia dei numeri uno si cela un background di talento, sacrificio, duro lavoro. Un’etica quasi oscurata, tanto in Zlatan che in Mino, ma che sta alla base del successo di entrambi.

Cultura trash

Milano, 31 gennaio 2013. Sono le 19:40 e la sessione di mercato invernale ha appena chiuso i battenti all’Atahotel. Mino, intervistato ai microfoni di Sky, è una furia perché il trasferimento di Pajtim Kasami al Pescara è sfumato a causa di un malfunzionamento del sistema informatico. «Non si può fare calciomercato in questo albergo di merda», esordisce in diretta tv.

La conduttrice lo richiama all’ordine, ricordandogli la presenza delle telecamere. Mino lo prende come un invito a lasciarsi andare: d’altronde anche questo è show business. «Non me ne frega niente se siamo in diretta. Qua non funziona niente: non funziona l’internet, non funzionano gli ascensori. Uno come fa a lavorare internazionalmente, a fare un trasferimento entro le sette?». Mino continua, gli pare fuori dal mondo che nel momento di massimo traffico (come gli ricorda sadicamente uno degli intervistatori al ritmo paterno del “questa è la brutta abitudine di fare le cose all’ultimo istante”) la rete vacilli. Il leitmotiv resta lo stesso, il cavallo di battaglia tra le crociate mediatiche di Mino: l’inefficienza del modello italiano a confronto con ciò che succede internazionalmente.

Forse, questa è la caratteristica più odiosa di Mino. Non perde mai occasione per denunciare l’arretratezza dell’Italia rispetto al resto del mondo. Passano pochi istanti, le telecamere sono quelle di TuttoMercato: «Sono incazzato nero perché il calciomercato in Italia si fa in un posto così. Non so chi cavolo organizza il calciomercato in questo posto qui, questo albergo andrebbe abbattuto per costruirci sopra qualcos’altro». E ancora: «Se il calciomercato bisogna organizzarlo qui siamo veramente nella merda. Come gli stadi. D’altronde è lo specchio del calcio italiano». Il giornalista, infilzando il coltello nella piaga, gli domanda se all’estero funziona diversamente. Mino sospira e sorride. Una breve pausa, poi la predica da uomo vissuto: «Ragazzi, veramente, se in Italia non ci diamo una svegliata non andiamo da nessuna parte».

Il paradosso e la mistificazione sono alcune delle armi vincenti nell’arsenale di Raiola: rivendica il brand italiano all’estero e ricorda, quando è in Italia, il solito cliché di quanto siamo primitivi rispetto al resto del mondo; sbandiera ai quattro venti di saper parlare ben sette lingue, quando poi parlando italiano sbaglia un congiuntivo su due. E’ il prototipo dell’uomo che si è fatto con le sue mani, che conosce il mondo, che ha visto cose che voi umani non potete immaginare. Poi lo guardi e te lo immagini in un bar di Nocera Inferiore a bere vino rosso da una damigiana con i manici in vimini.

Il giornalista gli chiede poi se Balotelli, appena arrivato al Milan, ha un obiettivo per la stagione. Questa la risposta di Mino: «Non retrocedere. Che cacchio di domande fai tu? Se hai una domanda normale magari avrai una risposta normale, se non hai una domanda normale da fare levati dai coglioni». Vi ricorda qualcuno?

La scuderia di Mino Raiola

Secondo un recente report di Eurosport Raiola, attraverso le sue società, controllerebbe circa 330 milioni di euro in cartellini di giocatori. Ibrahimovic, Matuidi, Balotelli, Pogba, Mkhitaryan, Lukaku e Donnarumma sono solo alcuni dei cavalli che rimpolpano le tasche di quello che, stando a Forbes, sarebbe il quarto agente al mondo per guadagni, alle spalle di colossi come Jorge Mendes e la sua Gestifute, la Mondial Sport Management (che cura gli interessi dei più importanti calciatori sudamericani, Cavani è il fiore all’occhiello) e la Stellar Group di Gareth Bale. Un giro d’affari complessivo di 356 milioni, cui però vanno sottratte spese e commissioni, e aggiunte eventuali entrate derivanti da clausole e accordi spesso non resi noti che variano di situazione in situazione in situazione. Un business poco chiaro di cui però è facile intuire la portata.

Ibra è il giocatore che ha fruttato i maggiori guadagni: dei 157 milioni di euro accumulati in ogni trasferimento dello svedese, si stima che Raiola abbia ricamato un incasso di 30-40 milioni. 27 sono invece i milioni guadagnati nel solo passaggio di Pogba dalla Juventus al Manchester United sulla base di un accordo con la società bianconera, obbligata a versare 18 milioni tout court a Raiola in caso di cessione del francese ad una cifra superiore ai 90 milioni, più altri 3 milioni ogni aumento di 5 milioni nell’offerta. Una cifra monstre su cui però la FIFA sta indagando a causa del presunto coinvolgimento nell’affare delle celebri TPO (Third Party Ownership), i cosiddetti fondi di investimento che speculano sui diritti economici dei calciatori, messi al bando dalla FIFA a partire dal 2015.

Anche questo, se vogliamo, è un controsenso dell’epopea di Raiola, la cui attività oscilla freneticamente tra una nitida risoluzione mediatica e l’ombrosa landa delle trattative, tenuta lontana da occhi indiscreti. Mino si espone, ama far parlare di sé. Mentre i giornali versano fiumi d’inchiostro per ogni sua dichiarazione, magari trama esattamente l’opposto negli spietati giochi di potere tra società e giocatori. Mino, in un certo senso, pilota il mercato dall’esterno e dall’interno con la stessa facilità con cambia il suo outfit: in infradito e camicia hawaiana o in giacca e camicia di seta, l’importante è avere sempre la situazione sotto controllo.

L’ultimo caso

Le ultime turbolenti vicende di mercato che hanno avuto come protagonista Raiola sono quelle legate al portiere del Milan Gianluigi Donnarumma. Da un lato c’è un ragazzo, appena diciottenne, che ha disputato una stagione strepitosa con la maglia della sua squadra del cuore (?); dall’altro una nuova dirigenza che, con l’intento di rilanciare il Milan dopo anni bui, ha deciso di puntare sul suo baby fenomeno sia per il rendimento sul campo che per una questione pubblicitaria: Donnarumma rappresenta la bandiera in fieri di un club che ha un disperato bisogno di certezze e rassicurazioni. Il Milan gli ha offerto un rinnovo del contratto, in scadenza la prossima stagione, da cinque e più milioni. Donnarumma ha detto di no. In mezzo sempre lui, Mino, che si è ritrovato tra le mani l’ennesima gallina dalle uova d’oro.

Difficile dirlo, ma la sensazione è che se Mino Raiola non fosse stato il procuratore di Gigio, a quest’ora tante persone avrebbero dormito sogni tranquilli. E invece il mese di giugno è trascorso con la pesantezza di un macigno, tra account Twitter hackerati, increspature tra le parti, banconote false lanciate dalla curva, e mezza Italia che etichetta Gigio come ingrato per aver respinto un’offerta irrifiutabile. Duelli a distanza tra Fassone e Raiola, le uscite pungenti dell’uno e le pesanti accuse dell’altro, il Milan che farebbe mobbing sullo stesso Gigio, immerso nell’angoscia tra i banchi della maturità (arginata con un poco convenzionale viaggio ad Ibiza) e l’Europeo con la Nazionale Under 21. Tutti puntano il dito contro tutti, ma pochi ricordano: Mino non cura gli interessi di gente che vuole diventare una bandiera nel proprio club, vive per generare catastrofi nei cuori di chi è portato ad affezionarsi.

Nelle ultime ore si è aperta la finestra di un ipotetico lieto fine – le precauzioni sono d’obbligo – tra il Milan e il suo giovane figlio. Un epilogo che per certi versi vede sconfitto Raiola e il suo intento di monetizzare sulla cessione del suo assistito. Si parla di una crociata persa, di un passo falso laddove il cuore, per una volta, ha trionfato sul danaro. O quanto meno su prospettive ancora più ingenti di guadagno (sei milioni per cinque anni la formula del contratto), che, come dire, parlare di cuore è giusto fino ad un certo punto. Mino si lecca le ferite ma sa che anche questa, a suo modo, è una piccola vittoria.