La lezione di Inzaghi

La vittoria della Lazio nella semifinale di andata di Coppa Italia è senza ombra di dubbio frutto delle scelte tattiche di Simone Inzaghi. Il tecnico dei biancocelesti, chiamato a prendere in mano le redini del gruppo a pochi giorni dall’inizio del ritiro di Auronzo di Cadore dopo che Lotito e Tare avevano a lungo inseguito e corteggiato El loco Bielsa, si sta dimostrando un allenatore veramente capace e brillante. Una rivelazione insomma. L’ulteriore riprova, qualora non fosse sufficiente il record di punti in campionato della Lazio sotto la gestione Lotito, è stata probabilmente la sapienza tattica sciorinata nell’insidiosa stracittadina dell’Olimpico.

Perché questo derby nascondeva molte più insidie per la Lazio di quanto non si possa pensare. In primis i biancocelesti si trovavano a dover fronteggiare il disagio di chi dal 26 maggio 2013, giorno della storica vittoria nella finale di Coppa Italia proprio contro i cugini, non era più stato in grado di vincere un derby. Nelle successive sette sfide tra le due squadre si contano infatti cinque vittorie dei giallorossi e due pareggi. In secondo luogo c’era da fronteggiare un pronostico che, da tutte le parti, vedeva la squadra di Spalletti raccogliere consensi indicando per contro la Lazio come vittima sacrificale. Terzo punto, la difficoltà di trovarsi a dover arginare il temutissimo trio Dzeko, Salah, Nainggolan a ranghi ridotti considerata la contemporanea assenza di Radu, Lulic e Patric che sembrava impoverire la possibilità di scelta di Inzaghi. Quarto ed ultimo punto, ma non per questo meno importante per chi è chiamato a difendere l’onore e la passione di una tifoseria, il peso di affrontare un trittico di stracittadine con l’incubo di vedersi reso indietro lo sgarbo fatto dalla Lazio ai cugini nella stagione 1997/1998. Quella, per intenderci, dei quattro derby vinti su quattro con Sven Goran Eriksson in panchina.

Perché la Lazio arrivava alla sfida avendo perso il derby di andata. Una partita che Simone Inzaghi in realtà era riuscito a preparare anche abbastanza bene se è vero che per circa 60’ la Lazio era stata in grado di imbrigliare senza troppe difficoltà la Roma prima dell’harakiri, lo sciagurato doppio passo di Wallace. Uno dei migliori in campo invece ieri sera. Anche in campionato così come in coppa Inzaghi aveva optato per la difesa a tre. La differenza sostanziale risiede però nel fatto che nel primo caso era Felipe Anderson ad agire come esterno di destra. Una scelta piuttosto opinabile e per altro più volte riproposta dal mister, che non ha mai convinto per almeno due motivi. Il primo è rappresentato dal fatto che per giocare a tre è necessario schierare due giocatori in grado, con disinvoltura, di coprire tutta la fascia. Parliamo di giocatori di corsa che sanno sia coprire che supportare la manovra d’attacco. Non è un caso se chi gioca con la difesa a tre con successo è ad esempio la Juventus che può schierare sugli esterni gente come Alex Sandro o Licthsteiner. L’impostazione tattica è sicuramente meno efficace se ad interpretarla è un funambolo come Felipe Anderson. Il brasiliano in effetti è uno che la gamba ce l’ha pure. Ma allontanarlo così tanto dai sedici metri imponendogli per altro obblighi di copertura gli impedisce, secondo problema, di essere devastante. A risentirne è allora tutta la squadra che corre senza rendersi pericolosa. E’ successo con la Roma nel derby di campionato, è successo con il Milan a San Siro, con l’Empoli all’Olimpico e per ben due volte con la Juventus, a Roma ed a Torino. Non è successo invece ieri sera. Perché ciò che fa di Inzaghi un allenatore brillante è la sua capacità di mettere in discussione il proprio credo.

La scelta di schierarsi a tre contro la Roma ieri sera è figlia prevalentemente della volontà di mettersi a specchio dell’avversario e limitarne il più possibile i punti di forza che, in questo momento, sono senza dubbio Dzeko, Salah e soprattutto Nainggolan. Attenzione, l’emergenza non inganni. Nonostante le assenze dei terzini già citate Inzaghi aveva comunque a disposizione Lukaku. Il belga è magari poco impiegato ma avrebbe comunque consentito di giocare schierandosi a quattro. La scelta di Inzaghi è stata invece quella di costringere i terzini giallorossi a rimanere bassi cercando di ingabbiare in particolare Nainggolan. La tentazione di schierare Felipe Anderson come esterno del 3-5-2 deve essere stata forte. Ma le esperienze negative pregresse hanno portato a più saggi consigli. Senza snaturare le caratteristiche dei propri giocatori, ecco un 3-5-2 finalmente sensato con Basta e Lukaku sugli esterni e Felipe Anderson a supporto di Immobile insieme all’ormai imprescindibile Milinkovic-Savic. A farne le spese Keita, il cui estro è tornato però utile al momento di infierire su una Roma alle corde e chiudere la partita. La Lazio in avvio ha sbandato. Un po’ per l’assetto tattico, un po’ per i timori di cui sopra. Dopo il ventesimo però, quando proprio Savic ha impegnato Allison ad una spettacolare deviazione in angolo, i biancocelesti hanno preso fiducia. E dominato in sostanza la partita contro una Roma presuntuosa e decisamente sotto ritmo.

La gabbia formata da Biglia, Parolo e Bastos per arginare Nainggolan ha funzionato alla perfezione. Il belga è stato protagonista di una prova decisamente opaca e soprattutto è stato costretto a rivedere significativamente il suo raggio di azione allontanandosi parecchi metri dalla porta difesa da Strakosha nel tentativo matto e disperatissimo di trovare palloni giocabili. Salah è stato tamponato a fasi alterne da Wallace e da uno scatenato Lukaku che ha per altro letteralmente annullato Bruno Peres. Felipe Anderson ha invece sfiancato Emerson Palmieri insieme a Basta e dato il giusto supporto ad Immobile, finalmente in grande spolvero contro una big, sfruttando il grandissimo lavoro di Milinkovic-Savic che come ha detto Mario Sconcerti nel post partita di ieri, non è un giocatore ma è ormai uno schema. Proprio il serbo è uno di quei giocatori sui quali Inzaghi, dopo la prima parentesi sulla panchina biancoceleste nel finale della scorsa stagione nella quale lo aveva accantonato, si è dovuto ricredere. Non sono anche questi i dettagli che fanno grande un allenatore?