Adebayo Akinfenwa is (not) too big to play football

La struttura molecolare di Akinfenwa, in relazione al suo peso, non sarebbe adatta al calcio. Lui, a differenza del calabrone, ne è ben cosciente e scende in campo lo stesso.

Avete presente l’aforisma di Albert Einstein sul calabrone? Quello secondo cui il rapporto tra la sua struttura alare e il suo peso non dovrebbe consentirgli di volare e invece, in barba alle leggi della fisica, lui non lo sa e vola lo stesso? Bene, pure fandonie. Innanzitutto è l’origine dell’assunto ad essere inesatta. La tesi non sarebbe riconducibile al fisico di Ulma quanto agli studi degli entomologi Antoine Magnan e Sainte-Lague riportati su Le vols des Insectes (1934), una pietra miliare del settore. L’insetto in questione, a volere essere precisi, non sarebbe neanche il calabrone ma il bombo, un’altra creatura simile, dal corpo tozzo e dalle ali minuscole, conosciuto in ambito scientifico come Bombus terrestris.

Alcune analisi sull’aerodinamica del volo, condotte a partire dal 2005, avrebbero addirittura documentatol’insostenibilità del modello matematico utilizzato per le ricerche del 1934, dimostrando come il “calabrone” sia perfettamente in grado di volare nel pieno rispetto delle leggi della fisica. Il bombo, infatti, si servirebbe di un movimento più complesso, basato sulla torsione e l’oscillazione delle ali, per ottenere una portanza che altrimenti non sarebbe plausibile con un semplice battito.

Saheed Adebayo Akinfenwa è un attaccante inglese di origini nigeriane, attualmente in forza al Wycombe Wanderers Football Club, squadra di Football League Two, quarta divisione del campionato anglosassone. E’ conosciuto anche come The Beast per via del suo fisico, un combinato disposto di muscoli e adipe per 180 centimetri e oltre 100 chilogrammi. “They say Im 2Big 2Play football” è la descrizione che campeggia sul suo vivace profilo Twitter, più una credenza popolare che una verità scientifica. Perché è proprio forzando il pregiudizio che Adebayo ha creato la sua “legacy”, all’interno e al di là del gioco.

Il mindset di Adebayo Akinfenwa è sempre stato segnato dalla stessa irriverenza che un calabrone nutre nei confronti della propria aerodinamica. Con la differenza che un calabrone non ha granché coscienza di sé né della realtà circostante, mentre Adebayo ha dovuto fare i conti sia con i propri demoni che con quelli del mondo esterno. Un mondo fin troppo cinico e crudele, che però ha iniziato ad accettarlo nel momento in cui The Beast ha imparato a comprendere se stesso. I sobborghi dell’East London sono il blocco di partenza.

Nato ad Islington, il 10 maggio del 1982, Ade –così lo chiamano i fratelli Yami e Dele – è il secondogenito di una famiglia di immigrati nigeriani. Trascorre l’adolescenza districandosi tra la strada, la propria dimora e la chiesa di quartiere, attingendo preziosi insegnamenti da ogni luogo di formazione. Sull’asfalto impara la dura legge della vita, poi, una volta a casa, fa i conti con i precetti cristiani della madre e l’ortodossia islamica del padre. Un meltin’pot culturale salvifico, che gli permetterà di deviare da un probabile sentiero votato al crimine – lo stesso che ha condotto molti dei compagni di merende di allora dritti in fondo ad una cella – ma anche piuttosto confusionario: dopo essere stato a lungo un fedele musulmano, oggi Ankinfewa è un praticante cattolico, va a messa ogni domenica e legge quotidianamente la Bibbia. Ecco, evidentemente il Ramadan non faceva proprio per lui.

Fin da piccolo, una robusta costituzione e una smodata passione per i farinacei contribuiscono a restituire l’immagine di un “naturally big guy”, fonte di non poche perplessità tutte lo volte che Akinfenwa, interrogato su quale sia la sua vocazione più profonda, risponde dando un calcio ad un pallone. La discrasia tra la sua mole e il physique du role stereotipicamente pensato per un giocatore, è evidente, ma se c’è un insegnamento che Adebayo ha sempre osservato con rigore è quello di non badare troppo alle convenzioni: «There are no limitations to what you want to do» è il mantra che con fare serafico ripete al suo interlocutore, oltre che a se stesso, tutte le volte che qualcuno fatica a prenderlo sul serio. Ed è proprio da questo assunto che Akinfenwa riparte dopo ogni delusione. La prima, forse la più cocente ma anche la più determinante per i risvolti fatalistici della sua carriera, coincide con lo scarto dalle giovanili del Watford FC, all’età di diciotto anni.

Mancanza di determinazione, la ragione addotta dall’entourage degli Hornets, i “Calabroni”, così come vengono chiamati i giocatori del Watford per via delle uniformi gialle e nere. Quando si dice ironia della sorte.

Così, mentre il club che nel giro di pochi anni sarebbe finito sotto l’egemonia della famiglia Pozzo, si appresta ad affrontare una stagione insipida, culminata poi con un quattordicesimo posto in First Division, Akinfenwa fa le valigie e parte, direzione Lituania. La migrazione dal Regno Unito è favorita dal fratello della moglie del suo agente, in contatto con l’Atlas di Klaipėda, antica cittadina in riva al Mar Baltico che di coulored people nella sua storia ne ha vista passare talmente poca che Adebayo si ritrova ad essere – e ne verrà a conoscenza soltanto più tardi – il primo e unico giocatore nero della lega nazionale . La fervida motivazione con cui Akinfenwa affronta la sua nuova avventura – il mea culpa dello scarto se lo sente addosso, per sua stessa ammissione le serate balorde in giro per Watford erano fin troppo ricorrenti – viene messo a dura prova da una cultura lontana, che lo denigra non più soltanto per le fattezze elefantiache, ma anche per il colore della pelle. Tralasciando i cori razzisti, fenomeno deplorevole ma pur sempre circoscritto alle dinamiche di campo, c’è un episodio che più di ogni altro crepa le resistenze di Adebayo, ultima e densa goccia pronta a far traboccare il vaso.

E’ una fredda giornata a Klaipėda quando tra gli scaffali di un supermercato una ragazzina di appena undici anni incrocia il suo sguardo. La nativa leva a mezz’altezza il braccio destro, come a fendere l’aria, e con aria torva lo squadra dalla testa ai piedi. Dalle dolci labbra irrompe un sibilo. L’inglese suona stentato, le parole tuttavia sono nitide: «White Power».

La pressione a quel punto è insostenibile, ma quel grosso e corpulento vaso che è Akinfenwa anziché frantumarsi trova la forza per tenere duro. Modella le pareti, si fa più capiente per evitare che i liquami fuoriescano. L’istantanea del supermercato invece di indurlo al tracollo è la spinta per la risalita. La mano che plasma la trasformazione è quella del fratello Yami, fedele spalla e fonte di conforto durante la permanenza in terra straniera: «I’d never tell you to stay somewhere you don’t want to be. But you can leave and let them win or you can stay and prove them wrong», queste le parole che pizzicano le giuste corde. Due cornette del telefono, a più di duemila chilometri l’una dall’altra, il tramite del sostegno.

Il turning point, in piena assonanza con la più smielata retorica della rivalsa, arriverà pochi mesi più tardi sul luogo in cui, a detta di tutti, Akinfenwa costituirebbe un’evidente idiosincrasia. E’ su un campo da calcio che The Beast vince due volte il pregiudizio, quello inerente al colore della pelle e alla presunta incompatibilità con il gioco che ama: l’atto della conversione è un gol, segnato al diciottesimo minuto contro lo Zalgiris Vilnius, grazie al quale il suo Atlas vincerà la finale della Lithuania Cup. In tutto le marcature saranno sette nel corso di due stagioni – durante le quali Adebayo avrà anche modo di esordire, seppur al turno preliminare, in Coppa UEFA -, un bottino di certo non entusiasmante a corredo di un’esperienza complessa, che oggi ricorda poco volentieri. Se c’è un lascito di cui però va particolarmente fiero è quello che trasuda dagli occhi degli abitanti di Klaipėda. Dolci, rassicuranti e finalmente liberi da ogni aberrante preconcetto.

All’alba della stagione 2002/03, svariate squadre del Regno Unito si fanno avanti, tutte disposte a concedere una seconda chance ad un tank colmo di nostalgia di casa. Akinfenwa non si fa pregare e si lega al Barry Town – squadra di Premier League gallese con cui tra l’altro debutterà in Champions League – la prima di una lunga serie nelle terre sotto l’egemonia della Regina: Boston United, Leyton Orient, Rushden, Doncaster, Torquay United, Swansea City, Millwall, Northampton Town, Gillingham, Wimbledon e Wycombe, le mete dal 2003 ad oggi, a cavallo tra la terza e la quarta divisione inglese. Akinfenwa aderisce lentamente al fenotipo del “journeyman”, letteralmente un viaggiatore, considerando che nell’arco di tredici anni non riuscirà mai a stazionare per più di trenta mesi consecutivi nello stesso club. Un nomadismo spasmodico, pur sempre contenuto all’interno di rigidi confini, almeno per quanto concerne le prestazioni sportive. Perché se il bacino calcistico di riferimento resterà immutato, i tratti iconici di Akinfenwa si diffonderanno un po’ dappertutto, imprimendosi a forza nell’immaginario collettivo.

In un’intervista rilasciata al Daily Mail, Adebayo ha rivelato che l’insulto più divertente mai subito in carriera riguarda l’accostamento a Sherman Klump, l’imbranato docente di genetica del film “The Nutty Professor”. Tutte le volte che dalle tribune piove il coro “You are just a fat Eddy Murphy”, fatica a trattenere le risate, anche se, detto in confidenza, preferirebbe gli cantassero “You are just a muscolar Eddy Murphy”. Questione di prospettive. Di gran lunga più benevolo l’omaggio che il videogioco Fifa gli ha tributato nel corso degli ultimi anni, fregiando Akinfenwa del titolo di “strongest player of the game”, con un parametro sempre oltre i 90 punti alla voce forza fisica. Ne è entusiasta ma preferisce non giocare con il suo alter-ego su consolle perché lo trova piuttosto lento. Rimostranze a parte, l’evento di presentazione di Fifa15 in cui Adebayo ha sfidato l’allora campione europeo dei pesi medio-massimi, il pugile George Groves, battendolo 3-0, è una trovata artistica che deteriora i confini tra kitsch e trash. Da segnalare anche il clamoroso acquisto da parte del Barcellona riportato su un servizio fake di Skysport UK.

La straordinaria capacità di Akinfenwa di influenzare la cultura di massa è un’interazione a doppio filo. Se da un lato la realtà circostante ha contribuito a rimpolparne l’hype, affascinata da una figura così esotica e inusuale, dall’altro Adebayo ha arricchito la sua maschera con nuove e conturbanti espressioni, in una pirandelliana predilezione per il personaggio piuttosto che per la persona. Il potenziale caricaturale di Akinfenwa risiede oggi in un brand, “Best Mode On”, una linea di abbigliamento che è anche etichetta discografica. Il concept di fondo – condensato nell’assunto “A state of mind, not a state of physical appearance” – gioca sulla dicotomia tra quello che il corpo mostra e quello che la mente cela. Una contraddizione evocativa, paradigma calzante della sua stessa esistenza.

L’autoironia è lo strumento che gli ha permesso di accedere ad uno strato più profondo, ricucendo lo scarto tra essere e apparire. Adebayo sorride quando in giro per le strade lo scambiano per un giocatore di football americano: «I play proper football», ammette di fronte all’interlocutore incredulo, legittimamente spiazzato dalla mole che ha di fronte, più adatta alla NFL che ai campi da calcio del Regno Unito. Effettivamente gran parte degli allenamenti di Akinfenwa si svolgono lontano dall’erba, nella palestra vicino casa dove, motivato dal fratello Dele, riesce a sollevare circa duecento chili, quasi il doppio del suo peso, su una panca piana. «Come on, ain’t nobody in the Football League or Premier League stronger than you, push. PUSH!». Considerando che il suo braccio è grosso quanto una gamba di John Terry, e che la sua stazza equivale ad un Theo Walcott e mezzo (68 i chilogrammi dell’ala dei Gunners), diciamo che The Beast spinge, spinge eccome.

Forse è proprio in un match contro il Chelsea di John Terry, giocato il 19 luglio del 2014, che Akinfenwa ha cementato quella legacy da eroe minore di cui gode oggi. Sebbene si trattasse di un incontro di preseason, il Wimbledon per poco non sconfisse i Blues allenati da Mourinho, portandosi sul 2-0 al termine del primo tempo, salvo poi subire nella ripresa una prepotente rimonta, propiziata da due marcature dello stesso Terry per il 3-2 finale. Adebayo non riuscì a segnare, ma diede prova su larga scala della finissima equazione alla base di quel suo bizzarro e personalissimo divertissement che è il giocare a calcio contravvenendo alle leggi della fisica.

Pochi mesi più tardi, il 5 gennaio 2015, un altro cameo contro un’altra big della Premier League. Terzo turno di FA Cup, minuto 36 di Wimbledon-Livepool: George Francomb taglia l’area di rigore dei Reds con un cross velenoso dalla bandierina. La palla sguscia via dalle mani di Mignolet, tamburellando nella mischia per poi infrangersi sulla traversa dopo un ultimo tocco di Sakho. Akinfenwa lascia fare tutto alla forza di gravità. I muscoli si rilassano, lui si adagia con grazia al suolo e urta delicatamente il pallone per il momentaneo vantaggio. Poco importa se il Liverpool riuscirà a ribaltare il passivo grazie ad una doppietta di Gerrard – l’idolo di Adebayo, tifoso dei Reds fin da bambino. A fine partita la tipica magia della FA Cup, fertilizzante rarissimo per i miracoli sportivi, si esaurirà in un dolce ricordo. Il gol come atto della massima redenzione, contro l’establishment che non lo ha mai preso sul serio.

Adebayo ancora oggi custodisce gelosamente la maglia che Gerrard gli fece recapitare qualche giorno dopo. Così come conserva il dislivello emotivo insito in quella sfida. In un’intervista rilasciata a Vice Sports ha dichiarato: «Sul campo li guardavamo come undici normalissimi giocatori. Ma dopo la sconfitta siamo tornati a essere dei tifosi. Non ci puoi fare niente. Loro sono i giocatori che sogniamo di essere». Il campo che annulla le differenze, tutto il mondo fuori che le ripristina, con fare cinico e spietato.

Comprendere in maniera nitida quale sia il confine tra realtà e finzione nell’iperbolica carriera di Akinfenwa non è cosa semplice. Probabilmente perché The Beast è un modo ingegnoso per occultare dolorose ferite, considerando che le sovrastrutture tendono solitamente a restituire un’immagine migliore di quanto un uomo nudo e solo a se stesso riesca a fare. L’istantanea in cui quel confine si è più che in qualunque altra assottigliato è senza dubbio la finale tra Wimbledon e Plymouth Argyle, valida per la promozione in League One dello scorso 30 maggio. Akinfenwa entra al minuto 76, gioca un paio di palloni di sponda, facendo leva sul suo fisico, nel più coerente tributo al rapporto tra forma e funzione. I minuti passano e il Wimbledon si porta in vantaggio grazie alla rete di Lyle Taylor, ma c’è da soffrire sul campo e contro la storia.

L’odierna AFC Wimbledon, infatti, è nata da una costola di tifosi che si opposero al trasferimento della storica Wimbledon FC dal noto quartiere londinese all’agglomerato suburbano di Milton Keynes, con cambio di nome annesso in MK Dons FC. Un’onta insostenibile per i supporter di una delle squadre più iconiche delle ultime decadi dello scorso secolo, che nella finale contro il Plymouth, giocata nel tempio sacro di Wembley, vedono l’opportunità di ricucire le distanze verso l’Olimpo del calcio britannico. Akinfenwa è l’unusual hero mandato dal destino per perpetrare la vendetta. Al minuto 99, dopo grandi patemi, nel pieno di un recupero infinito, i Wombles conquistano un penalty. Sul dischetto dovrebbe andare Callum Kennedy, ma Akinfenwa non è d’accordo. Si avvicina con fare autoritario, lo ammonisce puntandogli addosso l’indice nerboruto. Mentre Callum cede di fronte a tanta determinazione, Adebayo raccoglie con uno scatto il pallone, pronto a fare i conti con la solitudine del calcio di rigore.

L’intervista post-match è una tinozza piena di colori. Si va dall’irriverenza con cui chiede un lavoro dal momento che è “tecnicamente disoccupato”, all’invito a non serbare rancore, con scuse annesse, verso il compagno Callum. C’è tutta la felicità per aver realizzato un’impresa, in uno stadio che solitamente appartiene ad altri palcoscenici, a 34 anni suonati, e il compimento di una favola in puro stile underdog del suo Wimbledon e della sua lunga e multiforme esistenza. E’ il momento in cui The Beast può smettere di ridere di se stesso con gli altri e, almeno per una volta, ridere con se stesso degli altri.

«For all those that said i’m too big to play football, come on now. Ah-Ah!».