FULVIO COLLOVATI

A tu per tu con Fulvio Collovati

Confesso che in quegli istanti trascorsi tra quando ho digitato il numero ed il momento in cui la voce di Fulvio Collovati ha risposto all’altro capo del telefono avevo timore. Ho sempre pensato fosse una persona austera (e nel rapporto con sé stessa forse non mi sbagliavo), concisa, tagliente. E temevo dunque che certe domande che avevo preparato potessero irrigidirlo, disturbarlo; renderlo sbrigativo e compromettere la riuscita dell’intervista. Ed invece i miei timori sono stati presto spazzati via dalla cordialità e disponibilità ad aprirsi e raccontarsi di una persona che dietro un’apparente rigorosità di marca friulana maschera invece emozioni e sentimenti che ci hanno regalato un’amabile e lunga chiacchierata alla quale lasciamo dunque spazio.

A tredici anni viene notato da Giovanni Trapattoni mentre gioca all’oratorio di Limbiate. Chi era Fulvio Collovati in quegli anni:

“Iniziamo smentendo un falso storico. Avevo dodici anni e giocavo nelle giovanili del Cusano Milanino, comune diventato famoso perché luogo natio di Giovanni Trapattoni. Il Trap all’epoca abitava ancora lì, in un palazzo che affacciava proprio sul campo. Da qui ha origine questa leggenda metropolitana che in realtà però nulla ha a che fare con il mio passaggio al Milan. La verità è semplicemente che a quei tempi c’era una cultura dei settori giovanili che oggi non c’è più ed il Cusano era un club dal quale le squadre professionistiche lombarde erano solite pescare. Ogni stagione almeno tre-quattro giocatori passavano all’Inter, al Milan od al Como, per fare degli esempi; e non era certo per volontà o merito di Trapattoni. Fatta questa precisazione, rispondo alla domanda. A dodici anni ero un ragazzino già abbastanza maturo per la sua età. Erano tempi diversi onestamente e mi rendo conto che probabilmente è difficile oggi, con tutto quello che si legge e si vede in giro, lasciare ai figli di quell’età l’autonomia e la responsabilità che avevamo noi all’epoca. Ero spensierato, studiavo, avevo buoni voti (non eccelsi ma buoni) ed onestamente non pensavo che sarei diventato un calciatore. Ma per l’appunto quelli erano tempi diversi. Oggi il vero problema è che tutti a otto anni sognano già di fare il calciatore. E la colpa in primis è dei genitori che vorrebbero che i figli fossero tutti Cristiano Ronaldo o Dybala. All’epoca non era così. Per questo tutto è avvenuto naturalmente e con un processo graduale. Una volta al Milan sono partito dal settore giovanile e ho fatto tutta la trafila per approdare poi in prima squadra secondo un processo naturale”.

L’esordio in Serie A arriva nella stagione 1976-1977 con Marchioro ma l’impiego con regolarità arriva sotto la gestione di Nils Liedholm. Come è stato essere allenati dal Barone e quanto ha influito sulla sua crescita:

“Indubbiamente ha influito molto perché nonostante fossimo solo a fine anni ‘70 Nils Liedholm era già un allenatore che oggi definiremmo moderno. Quelli che in questi anni si reputano maestri del calcio dimenticano che lui 40 anni fa già praticava la zona e la marcatura a uomo libera: marca, ma quando c’è da spingere vai. Con lui ho imparato ad essere un giocatore in grado di coprire entrambe le fasi. Facevo il difensore ma ero anche propositivo in fase offensiva; dovevo sganciarmi e giocare con i piedi stando per altro ben attento a non buttare mai la palla in tribuna perché Liedholm ci ripeteva sempre che spazzare il pallone sugli spalti era una vergona. Insomma, quando dico che era un maestro, questo intendo. Riconosco che quello era un calcio diverso nel senso che era meno veloce di quello attuale, ma era comunque molto tecnico. Durante gli allenamenti si passavano ore a calciare in porta: non so se ora c’è questa stessa pazienza e voglia di imparare da parte dei giocatori”.



Gli anni al Milan sono anche quelli della retrocessione per illecito sportivo in Serie B dei rossoneri. Cosa ricorda e come visse quell’esperienza:

“Quella è stata senza ombra di dubbio una brutta pagina di storia per la società; meno per me e per gli altri giovani del gruppo che non c’entravamo nulla. Ma resta comunque una vicenda triste che non ho piacere di ricordare. Quelli erano anni bui e non riesco a dire con esattezza cosa abbia spinto quei tre-quattro compagni coinvolti a commettere certe sciocchezze. Forse l’abbaglio del guadagno facile. All’epoca i contratti avevano cifre diverse da quelle odierne e forse è stato per alcuni più facile finire attratti da personaggi poco trasparenti che li hanno poi trascinati in una situazione paradossale. Sono cose che probabilmente difficilmente accadrebbero oggi. Nonostante tutto decisi di seguire spontaneamente il club anche in Serie B perché in fondo io ero un prodotto del settore giovanile del Milan. Per altro non avevo neanche un procuratore per cui quando qualche presidente mi telefonò a casa per propormi un ingaggio rifiutai perché onestamente mi sembrava ingeneroso nei confronti del club che mi aveva cresciuto”.

Ha anticipato la domanda. Lei decise di restare in rossonero e divenne la stagione successiva anche il capitano di quella squadra. Nonostante ciò la retrocessione del 1982 non risparmiò critiche neanche a lei che anzi pagò anche fisicamente con l’episodio di Como. A distanza di anni come giudicherebbe quella situazione e quanto influì sul suo passaggio all’Inter:

Può sembrare paradossale ma la vittoria di Spagna ’82 servì anche a ridare slancio al Paese ed alla ripresa economica

“L’ho anticipata da ex difensore! Anche qui voglio raccontare bene come andarono le cose. Succede che l’anno della Serie B giocavo il sabato con la Nazionale e la domenica in campionato con il Milan. Due partite in 24 ore; cosa che a certi livelli si accusa e limita le prestazioni. E questo accadde almeno tre weekend. Poi tornammo in Serie A ma a fine stagione retrocedemmo. Allora mi chiamò Enzo Bearzot e mi disse che a parer suo non potevo tornare alle due partite in un fine settimana.

Così, d’accordo anche con Farina, decisi di mettermi sul mercato. Influì questo e dunque il rischio di perdere la Nazionale; ma ebbe certamente un peso anche quella che ho avvertito come una mancanza di riconoscenza da parte della tifoseria: ero rimasto nonostante la retrocessione, giocavo in Nazionale, ero il capitano del club eppure tutto questo non mi ha risparmiato il sasso a Como. Non è stato corretto”.

Nel mezzo Spagna ’82. Come sintetizzerebbe oggi quei giorni:

“Sintetizzarla è difficile; è difficile innanzitutto perché è stata un’esperienza incredibile a livello professionale e personale. Puoi vincere tutti gli scudetti che vuoi, magari la Champions. Ma vincere il Mondiale, con quel percorso poi, è stata una cosa che la gente ricorda ancora oggi a distanza di decenni. Faccio poi un’altra considerazione. Ridurre quella vittoria alla dimensione prettamente calcistica è a parer mio riduttivo. In quegli anni l’Italia si riaffacciava dalla recessione; una crisi pazzesca, vera. Può sembrare paradossale ma la vittoria di Spagna ’82 servì anche a ridare slancio al Paese ed alla ripresa economica. L’entusiasmo per la vittoria sul Brasile, quella sull’Argentina di Maradona, il trasporto del Presidente Pertini, un personaggio inimitabile, ed il contesto storico di riferimento sono tutti elementi che hanno reso quella vittoria epica”.

L’Inter dicevamo. Partiamo dall’appellativo “Ingrato transfuga”. Come si affronta una cosa del genere senza che questa ricada sulle prestazioni sportive in un ambiente competitivo come quello milanese:

“Diciamo che in realtà sono stato un precursore perché negli anni successivi si è perso il conto dei movimenti di giocatori da un club all’altro di Milano. Penso a Vieri, Pirlo, Ibrahimovic. È diventata una cosa normale così come i passaggi da una big all’altra, vedi Bonucci e via dicendo. All’epoca la mia scelta fu motivata realmente solo da un fatto: non volevo cambiare città! Mi volevano Juventus, Fiorentina e Inter. Avevo quasi accordo con i Viola ma alla fine Mazzola mi convinse e firmai con i nerazzurri. Non è stato facile affrontare quello che venne dopo; poi con il Milan appena retrocesso! Sulla sponda rossonera sono tuttora tacciato di essere un traditore. Ma la realtà è più profonda. Dare del traditore a qualcuno ormai è facile, ma c’è anche da dire che il Milan in quegli anni era in crisi nera e non solo di risultati. Comunque, alla fine quando sei in campo pensi solo a giocare e dimentichi la contestazione; anche se il secondo anno in nerazzurro ricevetti anche lettere di minacce. Non posso dire di non essere emotivo e direi una bugia a dire che è filato tutto liscio. Però penso anche faccia parte del mestiere. Ciò detto, all’epoca emotivamente mi dispiaceva”.

Un flashback dei suoi anni in nerazzurro:

“Grande gruppo, grandi giocatori, penso ad Altobelli, Rummenigge, Beccalossi, ma un grande rammarico: non aver vinto nulla. Eravamo veramente forti ma quella squadra è stata anche la dimostrazione che non è detto che se sei forte vinci. Servono anche almeno altri due ingredienti: la mentalità e la fortuna”.



Se le dico Marc Hateley cosa mi risponde:

“Che le devo rispondere; ha fatto un gran gol in un derby che è passato alla storia. Quell’istantanea è diventata motivo di sfottò da parte dei milanisti: hanno tappezzato la città di poster e poi ci hanno fatto anche una coreografia. Però è stato un episodio. Ho marcato altri grandi giocatori che non hanno avuto la stessa fortuna. Con Marc per altro siamo amici ed abbiamo simpaticamente rievocato quell’episodio a “Quelli che il calcio”. La rivalità fuori dal campo non conta”.

Nils Liedholm dicevamo, ma anche Franco Scoglio e Osvaldo Bagnoli due allenatori iconici che incontrò nei suoi anni a Genova. Che ricordo ha di questi due tecnici:

“Sta dimenticando Enzo Bearzot. Per me lui è stato come un padre. Mi ha fatto esordire in Nazionale a 21 anni e non mi ha più tolto dal blocco. Ho partecipato con lui a due Mondiali e ha avuto fiducia in me anche nel periodo buio di un Milan che all’epoca si trovava in una situazione societaria che non esito a definire molto ma molto ma veramente molto più critica di quella attuale dove in realtà il problema principale è solamente che non arrivano i risultati. In questo momento a capo del club c’è fondo che garantisce continuità mentre all’epoca non c’era alcuna garanzia societaria. Devo molto a Bearzot. Era una persona leale. E poi essendo entrambi friulani c’era affinità: io non parlavo tantissimo, lui parlava il giusto; per cui ci si intendeva a meraviglia. Anche Scoglio e Bagnoli sono stati due allenatori a cui devo molto. Oggi si parla tanto di un possibile ritorno di Ibrahimovic in Italia. Parliamo di un giocatore che ha 38 anni. Quando giocavo io a 32-33 anni ti davano per finito. E quando io arrivai a Genova lasciando Roma avevo 32 anni. Per fortuna trovai Scoglio prima e Bagnoli poi che mi fecero ritrovare la voglia di giocare a calcio contribuendo ad allungare la mia carriera di altri quattro anni. Perché a quell’età è tutta questione di stimoli. Nella mia carriera ho avuto la fortuna di non aver mai subito infortuni; dopo otto anni in Nazionale ed un Mondiale vinto andare avanti era solo una questione di voglia e stimoli. E Scoglio e Bagnoli, ripeto, mi fecero tornare la voglia di giocare a calcio. Quelli poi erano anni ottimi per il Genoa dove tra le altre cose arrivammo quarti in campionato e raggiungemmo anche la semifinale di Coppa UEFA”.

Per certi versi ha nuovamente anticipato la nostra domanda. La cavalcata in Coppa Uefa rimanda alla memorabile impresa di Anfield:

“Ripeto, quello era un Genoa che giocava un bel calcio e si è tolto delle soddisfazioni. Quello che facemmo in quegli anni ricorda un po’ le imprese recenti dell’Atalanta od il Cagliari di quest’anno. Era una squadra sorprendente per come giocava ed era temuta dagli avversari. In quella edizione della Coppa UEFA battemmo l’Oviedo, la Steaua Bucarest di Hagi ed il Liverpool finché poi l’Ajax non ci eliminò ad un passo dalla finale. Quel Genoa fu la prima squadra italiana ad espugnare Anfield. E quel Liverpool era veramente uno squadrone con Rush, Barnes, McManaman; gente che ha fatto la storia del calcio. Ma anche noi eravamo forti sia in difesa che in attacco. E così andammo a Liverpool a giocarcela a viso aperto, senza tatticismi. Anche perché se fossimo andati per difenderci avremmo rischiato di prenderle. Una bella impresa”.

Genoa vuol dire anche Gianluca Signorini e la SLA. Che opinione ha lei in merito:

“Non lo so. Con Gianluca non eravamo solo una coppia in campo ma anche fuori. Avevamo giocato insieme a Roma e poi ci siamo ritrovati a Genova. Eravamo anche compagni di stanza in ritiro. È stata una vicenda che ho vissuto in prima persona. Ancora oggi provo profonda amarezza e dolore per aver perso prima di tutto un amico. Non so quanto la nostra carriera possa aver inciso sulla malattia. Un calciatore è una persona come tutte le altre; forse è maggiormente soggetto a traumi ed infortuni e magari questo può aver rotto qualche equilibrio. Di sicuro non è stata una questione di sostanze atipiche, questo glielo posso garantire”.



Appesi gli scarpini al chiodo, eccezion fatta per un’esperienza a Piacenza, lei ha preferito la comunicazione agli incarichi da scrivania. Soprattutto di questi tempi quello dell’opinionista è un mestiere complesso dove le parole devono essere sempre più soppesate per non essere mal interpretate o strumentalizzate. Possiamo tornare un attimo sulle polemiche di queste ultime settimane più che altro come punto di partenza per provare a capire cosa l’ha condotta a questa scelta considerato che lei ha sempre fatto della schiettezza una delle sue doti?

“Tengo a precisare che la prima cosa che ho fatto quando ho deciso di appendere gli scarpini al chiodo (e ne avevo per giocare almeno altri tre anni) è stata avviare una società attiva ancora oggi che si occupa di comunicazione e pubblicità. Questo è il mio lavoro. Poi c’è stato e c’è tutt’oggi anche il ruolo di opinionista. Nacque tutto perché fui contattato da Tele + dove con Altafini eravamo le prime seconde voci delle telecronache della pay tv. All’epoca non è come oggi che c’è una partita ogni giorno; la gara trasmessa in televisione era una a settimana e così ci alternavamo: una partita a testa. 

Ho giocato otto anni in Nazionale e ho avuto la fortuna di alzare la Coppa del Mondo. Ho vinto però un solo scudetto. Forse avrei potuto fare meglio

Rimasi con Tele + per quattro anni; poi dopo andai alla Rai ed oggi sono 21 anni che collaboro con la tv di Stato. In realtà non sono una persona che ama parlare troppo, a meno che non sia in radio dove sono obbligato a farlo. Però quando parlo mi piace essere obiettivo e soprattutto non ho legami con nessuno per cui se devo esprime un pensiero lo faccio incondizionatamente. Ritengo non ci sia cosa migliore dell’essere liberi. Per quanto riguarda le polemiche recenti, credo che la frase sia stata ingigantita dopo essere stata estrapolata da un contesto goliardico. Onestamente è comunque una vicenda sulla quale non vorrei tornare oltre. Lungi da me essere sessista o maschilista. Qualcuno ne ha approfittato per marciarci sopra anche se posso riconoscere che la frase sia stata magari infelice. Ma le assicuro che in tv ho visto ben di peggio”.

Le ultime due domande: come consegnerebbe agli annali Fulvio Collovati calciatore:

“Ho giocato otto anni in Nazionale e ho avuto la fortuna di alzare la Coppa del Mondo. Ho vinto però un solo scudetto. E allora le dico, come mi insegnava mio papà, che forse avrei potuto fare meglio”.

È un po’ troppo severo con sé stesso, non trova:

“È stato un insegnamento che mi spinge a cercare di fare sempre di più”.

Siamo soliti chiudere le nostre interviste provando a chiudere il cerchio rispetto a come abbiamo iniziato: chi è Fulvio Collovati oggi:

“Una persona serena con una famiglia unita che è la cosa che mi preme di più. Ormai tutto ci sfugge di mano; il mondo va alla velocità della luce ed è difficile stare dietro a tutto. Ma io ho la fortuna di avere accanto a me mia moglie: sono 40 anni che la conosco ed è sempre la stessa e questa è già una cosa rara. E poi ho anche due figlie meravigliose che mi danno grandi soddisfazioni, per cui non saprei cos’altro volere. Non sono né ricco né povero e lo specifico perché magari la gente chissà cosa pensa. È questa la mia ricchezza: sono sereno”.


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